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 2017  settembre 07 Giovedì calendario

Ernest l’italiano. Il legame con il nostro paese fu «fatale» per Hemingway e il suo sguardo si vestì di luce

Hemingway fu ferito nella battaglia di Caporetto». Recita così una recente recensione all’edizione inglese del mio libro Hemingway in Italia, pubblicata in una rivista letteraria di Londra. È vero? No, ma è un equivoco diffuso: la descrizione che Hemingway fa di Caporetto in Addio alle armi è talmente potente, che all’epoca molti lettori erano convinti che a Caporetto ci fosse stato – e perfino oggi c’è ancora chi trova difficile credere il contrario.
In realtà, Hemingway fu ferito sul Piave l’8 luglio 1917. Nell’ottobre del 1917, quando le forze austro-ungariche (con il sostegno tedesco) sfondarono le difese italiane a Caporetto (ora Kobarid in Slovenia), il giovane Hemingway si trovava ancora negli Stati Uniti. Non si recò mai sul fronte dell’Isonzo, né in quel periodo né dopo che era tornato in Italia, all’incirca nove mesi dopo. Il suo segreto, l’ho scoperto durante le ricerche per il libro, era semplice: Hemingway era un giornalista (aveva lavorato per un giornale a Kansas City) e assorbì i dettagli della ritirata di Caporetto dai soldati italiani che vi avevano partecipato, incontrati mentre prestava servizio come autista di ambulanza della Croce Rossa americana (e in seguito come rifornitore di sigarette e cioccolata alle truppe italiane) a Schio, Bassano del Grappa, Monastier e Fossalta di Piave nel 1918.
È stato soprattutto il mio interesse per il giornalismo di Hemingway, essendo io stato un corrispondente straniero, che mi ha condotto ad approfondire la sua vita in Italia e le storie reali che si celavano dietro le opere di ambientazione italiana: Addio alle armi, Di là dal fiume e tra gli alberi e i racconti di Nick Adams. E ho scoperto che l’importanza dell’Italia, nella vita e nell’opera di Hemingway, è stata sottovalutata, se non addirittura ignorata. Lo si associa alla Spagna, alla Parigi degli anni Venti, a Cuba, alla Florida e all’Africa, ma non all’Italia, nonostante ci fosse tornato più volte e nonostante il periodo che trascorse in Italia gli fece incontrare due donne che fornirono ispirazione alla sua opera: Agnes von Kurowsky e Adriana Ivancich, la prima conosciuta nel 1918, quando si trovava in ospedale a Milano, la seconda molto più tardi, quando tornò in Italia dopo la Seconda guerra mondiale e fece di Venezia, del Veneto e del Friuli la sua seconda casa. All’epoca fece amicizia con la famiglia Ivancich a San Michele al Tagliamento, con i Franchetti a San Gaetano, vicino Caorle, e con i Kechler a Fraforeano e a San Martino di Codroipo.
Dopo aver subito due incidenti aerei durante un safari in Africa nel 1954, trascorse la convalescenza a Venezia ed ebbe modo di fare una gita a Lignano, una spiaggia sabbiosa alla foce del Tagliamento, che Alberto Kechler stava trasformando in località turistica con un consorzio di imprenditori suoi affini. Un giorno i Kechler erano andati a cavallo lungo la spiaggia di Lignano e ne avevano colto il grande potenziale, in relazione al turismo postbellico che iniziava a svilupparsi. Hemingway la definì la «Florida italiana».
Hemingway condusse e descrisse una vita di azione, dalla corrida alla pesca d’altura, alla caccia grossa nei safari. Ai nostri tempi c’è la tendenza a considerarlo anacronisticamente misogino. Il suo consumo eccessivo di alcol era leggendario. In Di là dal fiume e tra gli alberi, l’alter ego di Hemingway, il colonnello Cantwell e Renata, la sua ragazza veneziana, bevono gin e campari e parecchi Martini all’Harry’s Bar, seguiti da una bottiglia di Capri bianco, una di Valpolicella, due bottiglie di champagne a cena, un’altra bottiglia di champagne in gondola e una bottiglia di Valpolicella nella stanza d’albergo. «Ho notato che parli offensivamente della bottiglia», scrisse al suo traduttore russo Ivan Kaškin nell’agosto del 1935. «Io bevo da quando avevo quindici anni e ci sono poche cose che mi danno altrettanto piacere». Hemingway però aveva anche un lato più sottile, nella scrittura usava il «principio dell’iceberg», secondo il quale all’esterno accade poco, mentre il grosso avviene sotto la superficie. Per Fernanda Pivano, la sua traduttrice italiana, l’immagine di maschilista che aveva Hemingway era una «distorsione»: in realtà lui era un uomo generoso e gentile.
E questo, direi, è il lato di Hemingway che l’Italia ha fatto emergere. La Spagna rappresentava le corride e gli spargimenti di sangue, Parigi gli intellettuali come Gertrude Stein e Scott Fitzgerald, l’Africa erano la caccia grossa e la spavalderia, Cuba la pesca d’altura e la lotta contro gli elementi. L’Italia era diversa. Sullo sfondo italiano Hemingway scrisse di amore e morte con sentimento e ardore. Arrivò a condividere non solo l’amore italiano per il cibo, per il vino, il paesaggio e l’arte, ma anche gli atteggiamenti e le espressioni tipiche della cultura mediterranea, convertendosi perfino – o almeno così affermava – al cattolicesimo.
Cosa aveva dunque l’Italia che lo affascinava così tanto? In parte, credo fosse il carattere italiano, che lui considerava semplice e spirituale insieme: «A volte penso che viviamo solo a metà qui,» aveva detto alla sorella Marcelline dopo il suo ritorno in Usa nel 1919, «e gli italiani vivono fino in fondo». Ma c’era anche il paesaggio italiano, dal Veneto e dal Friuli alle Dolomiti, alla Liguria e alla Sicilia, luoghi che ebbero un profondo impatto su di lui. Così come la gente – non solo gli aristocratici dell’alta società veneziana che riuscì a conoscere molto bene, ma anche gli italiani comuni che aveva incontrato, soldati, autisti, camerieri, merlettai e cacciatori. I suoi scritti italiani, secondo le parole dello stesso Hemingway, avevano «quel che di speciale che trovi solo in una lettera d’amore».
Traduzione: Laura Pagliara