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 2017  settembre 06 Mercoledì calendario

Addio pastori di balene

La menzogna è stata smascherata tre anni fa, eppure le grandi baleniere con la scritta «attività di ricerca scientifica conforme alla convenzione internazionale sulle balene» sono pronte a salpare per la nuova battuta di caccia in Antartide, a dicembre. E quest’anno, a contrastare la strage dei grandi cetacei non ci saranno neppure gli ambientalisti: la «Sea Shepherd» – da 40 anni una delle più combattive organizzazioni no profit per l’ambiente marino e da oltre due lustri schierata contro la caccia a balene, capodogli e delfini – ha annunciato di ritirarsi.
La stagione degli arpioni si riaprirà dunque nel silenzio dell’Onu, che pure l’ha vietata con un bando internazionale (ignorato) nel 1986. E quest’anno la mattanza ricomincerà senza un antagonista di rilievo: «Dopo 12 anni, rinunciamo alla difesa attiva delle balene nell’Oceano Antartico – spiega Paul Watson, lo storico fondatore —, la nostra flotta non opererà più azioni di contrasto alla caccia compiuta dal Giappone».
Il perché sta nei cieli. «Sea Shepherd» ammaina la sua bandiera con il simbolo dei pirati perché ormai il Giappone utilizza tecnologie militari – inclusi i satelliti spia – per il controllo della flotta ambientalista: così le baleniere possono eludere e dribblare in mare aperto gli ecologisti. Le navi anti-Achab – che in un decennio hanno salvato 6.500 cetacei – sono monitorate in tempo reale. E Watson e compagni hanno deciso di investire le loro risorse in altre azioni in difesa delle balene: troppo dura battersi in mare e in tribunale contro Tokyo, pronta a citare in giudizio «Sea Shepherd» sostenendo che i suoi equipaggi (in verità mai ritrosi quando si tratta di usare la forza contro le baleniere) «sabotano navi giapponesi e provocano decessi tra gli equipaggi con le loro bombe di vernice».
La forza militare e gli avvocati del Sol Levante hanno provocato la resa degli ambientalisti più duri: per Tokyo, gli uomini di Sea Shepherd sono pirati moderni, «ecoterroristi», disposti ad azioni estreme come legare le eliche delle baleniere con le corde, lanciare bombole di gas puzzolenti o piene di vernice, arpionare le imbarcazioni «nemiche» per bloccare la pesca cruenta e a fini commerciali dei cetacei. «Inoltre – spiega il 67enne Watson (che è stato anche co-fondatore di Greenpeace me ne è stato poi espulso) – il Giappone ha approvato leggi antiterrorismo che permetterebbero di perseguire le navi degli attivisti».
Troppo anche per i «guerriglieri» di Sea Shepherd che, tuttavia, promette di non mollare. Dopo aver salvato difeso le balene nell’Artico dal 2005, quando la Farley Mowat si scagliò per prima contro i giganti giapponesi, il gruppo sposta la propria azione. Da Parigi, dove invocando lo status di «rifugiato politico» può evitare l’estradizione per ordini di cattura spiccati da Giappone e Costa Rica, Paul Watson promette che le sue navi non resteranno a lungo in porto. Andranno altrove a combattere altri cacciatori di balene.
Nel frattempo, parte delle risorse della Sea Shepherd andrà a una nuova causa: battersi per la tutela del salmone selvatico, contro lo strapotere dell’industria del pesce che moltiplica ovunque gli allevamenti intensivi nelle gabbie a mare. Si chiama «Operation virus hunter» la campagna per proteggere i salmoni selvaggi nel Nord del Pacifico dalla contaminazione dovuta a parassiti e virus patogeni che milioni di salmoni ammassati negli allevamenti trasmettono attraverso l’acqua. «Se volete salvare i salmoni (selvaggi), smettete di mangiare salmoni (allevati)» è il claim della nuova battaglia.
Senza gli storici «nemici», le baleniere nipponiche mascherate da missioni di ricerca sono pronte a ripartire. Tokyo sfrutta una scappatoia degli accordi internazionali sostenendo che la cattura delle balene è a fini di ricerca scientifica: preleva campioni dagli stomaci dei giganti del mare in cerca di tracce di materiali radioattivi (in seguito al disastro nucleare del 2011 a Fukushima). Dal 2014 la Corte internazionale di giustizia de L’Aja obbliga i giapponesi a limitare a 333 l’anno il numero massimo di balene che possono essere uccise «per la ricerca». Ma la stessa Tokyo non fa mistero che le carni dei grandi mammiferi finiscano poi sulle tavole del Sol Levante.