Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  settembre 05 Martedì calendario

Da rifare il processo sulla strage del rapido 904. Dopo trent’anni è un assurdo

È difficile non farsi cadere le braccia quando un colossale fallimento della giustizia non sai più neppure a chi addebitarlo, se non genericamente a un “sistema” che ogni tanto fallisce e basta, e questo, all’apparenza, grazie a una gigantesca e apparente opera collettiva. La notizia parrebbe assurda, ma alla luce di un processo indiziario tutto luci ed ombre (più ombre, sinceramente) ci sta tutta: il processo per la strage del rapido 904, datata 1984, dovrà ricominciare da capo dopo 33 anni per due ragioni che purtroppo non fanno una piega: una è che il presidente della corte andrà in pensione (tra un mesetto) e l’altra è che oltretutto è entrata in vigore la riforma della giustizia targata Orlando, e quindi, secondo i suoi dettami, tutto dovrà ricominciare da capo. 
Aggiungiamo che l’unico imputato si chiamava Totò Riina il quale seguiva le udienze in barella e in videoconferenza dal carcere di Parma, e ora si è in attesa con rispetto parlando che passi a miglior vita e renda il nuovo processo ancora più assurdo. Già, perché rifare il processo significa risentire tutti i testimoni ascoltati in primo grado (tanti) e tutte le testimonianze aggiuntive di sei boss mafiosi che era stato deciso di interrogare in appello: da immaginarsi lo sforzo, la fatica, le complicanze, i costi. Per che cosa? Non per poco, in teoria: nella strage del 23 dicembre 1984, in una galleria sugli Appennini tra Firenze e Bologna, trovarono la morte 16 persone e 267 rimasero ferite. Totò Riina fu indicato come mandante di una strage che doveva essere una risposta al maxiprocesso siciliano alla mafia, ma che fu appaltata alla camorra per l’esecuzione materiale. 
Ora, sbrigativamente, si potrebbe ricordare che in primo grado vi furono delle condanne (compresa quella di Pippo Calò, fedelissimo di Riina) ma che lo stesso Riina fu assolto: da qui il ricorso in Appello della pm Angela Pietroiusti. A parte la questione assurda e simbolica del giudice che va in pensione, le recenti modifiche apportate all’articolo 603 riforma Orlando impongono che se il pm ricorre contro una sentenza di proscioglimento si debba riaprire completamente l’istruttoria. Il che ha fatto chiedere all’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, che non si capisce nenche che cosa c’entri: «Quando avremo mai la verità sulle stragi mafiose terroristiche eversive degli anni ’90, se anche i ministri della Giustizia remano contro in tempi che paiono sospetti?». Ma il ministro non c’entra niente, anzi, la riforma paradossalmente è sacrosanta: rifare il processo in caso di appello del pm contro un proscioglimento è una prassi della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e la nostra Cassazione l’aveva fatta propria prima ancora che la riforma prendesse il via: insomma, è tutto normale, ma tutto va male perché il processo d’appello è stato «rinviato a data da destinarsi». 
Serve un nuovo collegio che redigerà un nuovo calendario delle udienze. Ora: è possibile che tutte le testimonianze audite in tanti anni siano da buttare via? In teoria si può evitare: basta che le parti siano d’accordo. Ma saranno d’accordo? C’è da dubitarne. «I responsabili non sono stati ancora assicurati alla giustizia. I parenti delle vittime e il popolo italiano non chiedono, come qualcuno ha insinuato, vendetta, ma chiedono giustizia». Parole buone ancora oggi, ma che furono pronunciate dal Capo dello Stato Sandro Pertini nel suo discorso di fine anno 1984. Siamo fermi lì.