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 2017  settembre 04 Lunedì calendario

La Corea del Sud incurante delle minacce sogna la riunificazione con i fratelli-nemici

Vi sarete forse chiesti come mai ad ogni test missilistico sempre più pericoloso, e ora con un terremoto da test nucleare, non si trovino testimonianze del panico tra sud-coreani terrorizzati dall’imminente fine del mondo. Nessun pianto isterico, nessuna manifestazione disperata, nessuna protesta. Tosti? Incalliti? Indifferenti?
Il 4 luglio, ad esempio, quando ci fu il test con gittata più lunga (record poi superato), il mercato finanziario di Seul perse solo un mezzo punto e il giorno dopo recuperò toccando quasi il record storico. La notizia più rilevante in prima pagina era il fidanzamento di due attori famosi. Nel test del 28 luglio, il governo sudcoreano esternava la famosa flemma: «Non abbiamo alcun senso di urgenza». Il missile non ha minimamente impattato la vita notturna di quel venerdì sera nella capitale. Tutti a far festa. 
Che sia l’apatia delle nuove generazioni? Troppo facile.
Dopotutto, i 51 milioni di abitanti della Corea del Sud agli osservatori stranieri appaiono come il più grande assembramento di scudi umani mai messo insieme. E la minaccia c’è: il 70 per cento delle forze militari nordcoreane si trova a 130 km dal confine, con migliaia di pezzi d’artiglieria puntati a Sud. I missili di media gittata mirano alle molte basi militari americane, alcune a sud della capitale Seul, area metropolitana con 25 milioni di abitanti. Gli esperti militari dicono che nei primi giorni di un’invasione convenzionale dal Nord ci sarebbero almeno 100 mila morti sudcoreani.
Eppure, di fronte ai titoli allarmati dei giornali stranieri, i sudcoreani restano scettici. Sarebbe facile minimizzare dicendo che dopo decenni di minacce, dichiarazioni incendiarie e test missilistici i sud-coreani hanno semplicemente sviluppato un callo emotivo. Non è esattamente così. 
Il perché lo ha spiegato bene Haeryun Kang, direttrice della rivista «Korea Exposé» di Seul: «Per noi la Corea del Nord non è un Paese esotico dall’altra parte del mondo. Sono i nostri fratelli, la nostra famiglia e un giorno si presume che ci riunificheremo con loro. Questo genere di legame familiare coesiste simultaneamente all’avversione per la Corea del Nord come minaccia militare». Fratelli, ma nemici.
La Corea è un Paese spezzato in due dal 1945, e rimasto tale dopo l’inutile guerra del ’50-’53. Superato il periodo del «Pericolo Rosso» negli Anni Settanta e Ottanta con arresti di dissidenti accusati di attività comuniste, è subentrata una «Politica del Sole» con l’idea di trovare dialogo e rappacificazione. Apertura interrotta dal precedente governo, ma ora in ripresa. Nonostante i botti.
Nel 2010, l’allora presidente cercò addirittura di far approvare una tassa per la ricostruzione del Nord, pensando già a una riunificazione. In realtà, nel Sud la possibilità di dover perdere molti dei propri guadagni per finanziare l’unificazione del Paese, come accadde in Germania, è una paura ben più tangibile dei missili di Kim Jong-un.
C’è anche la sindrome dell’«Al lupo! Al lupo!». La maggior parte dell’opinione pubblica nel Sud non pensa che Kim Jong-un sia un pazzo scatenato con il dito sul pulsante, ma che sia piuttosto una mente criminale e calcolatrice che stia alzando la posta per ottenere di più nei negoziati. 
«Indifferenza normalizzata», la chiama la Kang. Dietro la quale però, ben nascosta e raramente ostentata, un po’ di paura c’è. Ma in verità il timore più sentito nel Sud, ad ascoltare le testimonianze degli analisti, è che un leader imprevedibile e impulsivo possa davvero agire seminando furia e fuoco: e questo leader si chiama Donald Trump. Quando il presidente americano vinse le elezioni a novembre, un po’ di panico nella Corea del Sud in realtà ci fu. 
La madre della Kang, interpellata se avesse paura delle minacce del Nord ha dato una risposta che riassume l’atteggiamento del Sud: «Proprio per niente», ha detto ridendo. E dopo una pausa ha aggiunto, «ma suppongo che però moriremmo tutti». 
Forse, sotto sotto, si ricorda anche lei di questo detto coreano: «Quando gli elefanti combattono, è l’erba che soffre».