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 2017  settembre 04 Lunedì calendario

Una Siria da Mondiali, il calcio oltre l’orrore della squadra esule

Se il problema fosse solo quello della difesa dell’Iran, che non ha ancora subito reti, la Siria sarebbe ancora una terra felice e avrebbe una squadra comunque felice. Se il problema fossero davvero i centrali avversari Rezaelan e Mohammadi, i ragazzi di Damasco sorriderebbero comunque vada. Perché domani a Teheran la più devastata nazionale di tutti i tempi, espressione di una patria fatta a brandelli dalle grinfie del mondo, di un Paese dal mezzo milione di morti in sei anni e nel quale le aspettative di vita non vanno oltre i 55 anni, potrebbe qualificarsi per il Mondiale del 2018 a dispetto di tutto, persino del buon senso. L’Iran è già qualificato. La Siria è terza a pari merito con l’Uzbekistan (ma è avanti per differenza reti) che giocherà in casa contro la Corea del Sud, la quale è quasi certa di andare ma non può rilassarsi. Il terzo posto garantirebbe i playoff tra le asiatiche, il quarto soltanto le lodi planetarie. Alla Siria serve un pareggio posto che la Corea del Sud faccia almeno altrettanto. Ma se quelli dell’Uzbekistan dovessero fare i matti, allora deve scardinare il lucchetto iraniano e vincere. E così potrebbe addirittura diventare seconda e accedere direttamente. Fin qui i numeri. Dietro la fitta maglia delle statistiche e dei prospetti però, oltre l’immaginazione e l’impossibile, c’è il precipizio di un’avventura vissuta da esuli permanenti, esuli veri che giocano senza nemmeno gli spiccioli per allenarsi: un burrone di distanze obbligate e di emergenze continue. Molti giocatori sono rimasti uccisi. Secondo la stampa siriana almeno 38 di loro sarebbero stati assassinati dal regime di Assad. Jaber al-Kurdi, centrocampista che ora vive in Germania, ha raccontato di essere stato torturato nel 2013. Una delle stelle della squadra di Homs, Jihad Qassab, è stato arrestato nel giugno del 2014 e di lui non si è più saputo nulla. La squadra attuale è puro nomadismo calcistico. Spaesata è dire poco. La maggior parte degli stadi siriani sono diventati magazzini per l’artiglieria. L’ultima volta che dei calciatori fecero ingresso nello stadio di Damasco, dove una volta, almeno fino al 2011, la nazionale siriana si esibiva davanti a 50 mila spettatori, scoprirono che a loro disposizione c’era soltanto metà dell’impianto: l’altra metà era occupata dall’esercito. Per trovare casa si domandò ai Paesi confinanti. La risposta fu no. La stessa di altre nazioni mediorientali: «Andate più lontano per favore», si sentì rispondere dal Qatar il generale Mowaffak Joumaa, il più importante dirigente dello sport siriano. «Non se ne parla», dissero in Libano. L’unica soluzione dunque era staccarsi completamente, allontanarsi quanto più possibile: «Non abbiamo mai creduto che qualche vicino ci accogliesse», ammise il capitano al-Hussein. Non essendoci stadi in Antartide, si pensò alla Malesia. Accolti. Le sue partite casalinghe, sognando i mondiali, la Siria è andata a giocarsele dall’altra parte del mondo, allo stadio Hang Jebat di Malacca, in Malesia. Sugli spalti sono ugualmente spuntate bandiere siriane, sventolate con malinconico ma profondo orgoglio. Piccola vendetta sportiva è stato il 3-1 con il quale la Siria cinque giorni fa ha liquidato proprio il Qatar che le aveva rifiutato l’ospitalità, lasciando aperta la porta del suo piccolo paradiso. Adesso è tutta una questione di piedi. Soprattutto quelli di Omar Khiribin, il 23enne trequartista che gioca nell’Al Dhafra degli Emirati Arabi: «Siamo a un passo ma se non succede facciamo festa lo stesso». Forse per essere ancora qui ad ascoltare il proprio cuore battere. In barba all’orrore.