la Repubblica, 4 settembre 2017
L’arma di Kim Jong Un
Dunque la Corea del Nord sarebbe entrata a far parte del “Club H”. Di quella ristretta cerchia di Paesi che vantano nei loro arsenali una o più bombe all’idrogeno, migliaia di volte più potenti degli ordigni che rasero al suolo Hiroshima e Nagasaki. Finora le uniche potenze a cui veniva attribuita la più distruttiva di tutte le armi erano Russia, Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Cina, mentre India, Pakistan, Israele e Nordcorea disponevano di “normali” atomiche. Ora l’annuncio di Pyongyang cambia i rapporti di forza e rischia di far impennare insieme ai chilotoni (le migliaia di tonnellate di tritolo equivalente usate per misuare la potenza di un ordigno) anche le tensioni internazionali.
La bomba a idrogeno è più complessa da realizzare rispetto a una bomba a fissione. «Ma è comunque alla portata di un Paese che investe la maggior parte delle sue risorse in armamenti. E la fisica che si deve conoscere è vecchissima: la si insegna nei normali corsi universitari», ammette Paolo Cotta Ramusino, ordinario all’Univeristà di Milano e segretario generale del Pugwash, il movimento di scienziati che da sessant’anni si battono per il disarmo. La prima intuizione che alla fissione nucleare si potesse associare anche la fusione per rendere gli ordigni atomici ancora più devastanti la ebbe nel 1946 il fisico di origine ungherese Edward Teller. Ma gli Usa si decisero a percorrere quella strada solo dopo i primi test atomici sovietici nel 1950 e nel 1952 fecero esplodere la prima bomba H. «La bomba atomica più grande», spiega Cotta Ramusino, «ha una potenza di 500 chilotoni. Una bomba H può arrivare a decine di megatoni (milioni di chili di tritolo equivalente)».
Tuttavia, su cosa davvero sia esploso l’altra notte nel sottosuolo nordcoreano la scienza non è ancora in grado di pronunciarsi. I dati più completi arrivano dal Ctbto, l’organizzazione con sede a Vienna per il trattato sul bando dei test nucleari. I suoi esperti confermano: si è verificato in Corea del Nord un «evento sismico inusuale» di magnitudo 5,9 Richter. La misura è stata possibile grazie a una rete di stazioni sismografiche di cui il Ctbto dispone su tutto il pianeta. Al momento dell’esplosione erano attive 41 stazioni primarie e 96 secondarie. L’incrocio dei dati relativi alle onde sismiche, oltre a far escludere che potesse trattarsi di un terremoto naturale, ha permesso la localizzazione della deflagrazione: diversi chilometri più a nordovest rispetto ai siti scelti da Pyogyang per i test che si sono succeduti dal 2006 all’anno scorso.
Sulle cause dell’esplosione, però, gli scienziati non si sbilanciano. È stata davvero una bomba H come rivendica il regime di Kim? «Al momento non possiamo saperlo», spiega Wolfango Plastino, docente di Fisica applicata all’Università Roma Tre e membro del Gruppo di lavoro per la sicurezza internazionale e il controllo degli armamenti dell’Accademia nazionale dei Lincei. «Per dare una risposta bisognerebbe trovare tracce di un gas nobile, lo xenon, che si libera durante le reazioni atomiche. Ma non è facile». Il Ctbto ha creato anche una rete di rilevatori che misurano se nell’aria ci sono tracce di particolato e di gas nobili riconducibili a una esplosione nucleare: l’altra notte erano operative 88 stazioni di questo tipo in tutto il mondo. «Sfortunatamente però le due più vicine al sito, in territorio russo, erano spente», continua Plastino. «E dalle simulazioni meteo risulta che, se ci sono state fughe di gas durante la detonazione sotterranea, le correnti atmosferiche le hanno portate proprio in quella zona. Anche eventuali aerei spia, russi americani o cinesi farebbero fatica a trovare tracce del genere ad alta quota».
Rimane quella botta da 5,9 Richter (per alcune fonti addirittura 6,3), ben più forte della precedente “scossa artificiale” nordcoreana del 9 settembre 2016 di magnitudo 5,1. E resta il timore che l’arsenale di Kim Jong-un si sia arricchito di una nuova micidiale arma.