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 2017  settembre 04 Lunedì calendario

Agnelli, il vero re d’Italia ce lo spiegano negli Usa. Prodotto da Hbo, il biopic che racconta l’Avvocato e il suo stile inimitabile. Da noi ancora nessun film

L’icona dell’Avvocato ne esce comunque con la piega perfetta, come la riga dei suoi elegantissimi pantaloni. E non è poco. Mentre i documentari dedicati a personaggi semisconosciuti fanno solo bene al protagonista, quelli girati sulle leggende di solito o sono inutili, perché non aggiungono nulla, o stucchevoli, perché tendono a mitizzare. Il biopic Agnelli, dedicato all’Avvocato italiano più famoso nel mondo – prodotto da HBO, diretto da Nick Hooker e presentato ieri a Venezia – non è né l’una cosa né l’altra. Agli americani, che non conoscono il mito-Agnelli, lo racconta benissimo. E a noi italiani, che invece lo conosciamo bene, mostra non solo il bianco abbagliante della sua scintillante Dolce Vita (titolo di una sezione del documentario), tra yacht, party e conquiste, ma anche il grigio, come quello dei suoi gessati, ai quali a volte è parso essere più interessato che all’azienda, e persino il nero dell’abisso in cui sprofondò quando si uccise il figlio Edoardo (una causa a cui l’Avvocato, fanno capire alcuni intervistati, non si dedicò abbastanza).
Anyway, gli americani e gli italiani, l’anno prossimo, su Sky (ri)ascolteranno con interesse la storia dell’«uomo che inventò la vanità» (lo chiama così un suo vecchio amico di barca e di feste), il quale adorava essere Gianni Agnelli, e soprattutto adorava il fatto che lo si adorasse. Un uomo il cui padre morì decapitato dall’elica di un idrovolante e la cui madre aveva un leopardo come animale domestico, ricorda Lapo Elkann, l’altro «pazzo» di famiglia che prese il timone della Fiat a 45 anni, e per il resto visse una vita che fu come il suo stile. Inimitabile.
La storia, come si dice, c’è tutta: la guerra da ufficiale, i viaggi per il mondo (Vittorio Valletta disse al giovane Gianni di non preoccuparsi, che sarebbe arrivato il suo tempo, e intanto si godesse la vita: Lui lo prese in parola, ricorda la sorella Maria Sole), la Fiat (diceva: la F sta per Fabbrica, perché noi le cose le facciamo, la I per Italia perché non l’abbiamo mai venduta, la A per automobili perché è il nostro mondo, e la T come Torino perché qui siamo e qui sempre staremo), la moglie Marella (forse l’unica persona che avesse più charme di lui, ecco perché se ne innamorò), l’arte (amava in particolare Balthus), e poi le macchine, il mare, lo sport... Il docufilm è impeccabile. Fa sfilare tutti gli Agnelli sopravvissuti, del ramo principale e di quelli collaterali, e poi Kissinger (confessa che sconsigliò all’Avvocato di prendersi come socio Gheddafi), il rivale De Benedetti, lo stilista Valentino («Agnelli e Marella? Una coppia top-top class») e poi collaboratori, le donne che lo amarono (Pamela Churchill, Anita Ekberg e Jackie Kennedy, in un filmato in Super8 di Benno Graziani rinvenuto di recente...) e soprattutto le persone che lo conobbero meglio, più da vicino e senza filtri: il suo maggiordomo (il quale nella sua ingenua semplicità lo descrive con la battuta perfetta: Qualsiasi cosa gli venisse in mente, la faceva... Già, Lui poteva farla, anche andare due ore a sciare in elicottero, o fuggire mezza giornata a Capri sull’Agneta, e poi tornare a Torino, o Parigi, o Venezia...) e il cuoco (ricordo: Venne a pranzo un presidente della Repubblica purtroppo non si fa il nome, ndr e l’Avvocato mi chiese di preparare dei testicoli di toro. Io gli dissi che forse era meglio cucinare qualcos’altro, ma lui rispose: Fai come dico: facciamo trovare due coglioni a un coglione»
Certo, qualcuno obietterà: ma cosa ci dice questo Agnelli che già non sapevamo? Forse di assolutamente inedito, poco. Però, intanto, gli americani un documentario sull’Avvocato riuscito o meno che sia – l’hanno fatto. Rigoroso, ricco di materiale, ben costruito. Da noi, a 14 anni dalla morte di Gianni Agnelli, non è uscito ancora né un documentario, né una vera biografia, né un film (chissà cosa potrebbe venire fuori, chessò, dalla macchina da presa di Sorrentino...). Timore reverenziale o sudditanza psicologica? Del resto, il collega Tony Damascelli, un esperto della materia, mi fa notare che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui The silence of the Lambs non fu tradotto letteralmente, come in Francia o in Spagna: Il silenzio degli agnelli. Ma degli innocenti. Di chi è la colpa?