Libero, 3 settembre 2017
Il burro non si vanta di essere italiano al 100%
Dal 19 aprile scorso è in vigore l’obbligo di etichettatura d’origine per il latte e i derivati. Dopo l’analisi dei formaggi freschi e quello dell’alimento bianco Uht, è la volta del burro. Per fare la prova etichetta ho visitato i tre punti vendita delle catene nazionali della grande distribuzione presenti a Voghera, patria della famosa casalinga. In tutto ho recensito 19 referenze, incluse quelle a marchio del distributore di Iper la Grande I, Coop, Esselunga e Viaggiator Goloso.
Come di consueto ho utilizzato una griglia di valutazione assegnando un punteggio per ciascuna delle caratteristiche principali riferite all’etichettatura. L’origine valeva fino a 3 punti, la presenza di bandierine 1 punto, lo stabilimento di produzione 2, la leggibilità dell’etichetta 2, la certificazione fino a 2. Per il dettaglio si veda comunque la legenda della tabella riportata qui a fianco. Naturalmente questa non è un’analisi comparativa sulle qualità intrinseche dei diversi prodotti.
Rispetto alle referenze che ho esaminato finora, le confezioni del burro raccontano abbastanza poco al consumatore. Con qualche eccezione. Parlo di Galbani (Santa Lucia) che informa i consumatori sul mix di materia prima utilizzata parte italiana e parte europea Parmareggio, e Campo dei Fiori Foo’d. Quest’ultimo in collaborazione con lo chef stellato Davide Oldani.
GRAFICA SPARTANA
La grafica delle confezioni è in genere abbastanza essenziale, talvolta addirittura spartana. Nulla a che vedere per esempio con i formaggi freschi o gli yogurt. E in taluni casi manca addirittura, sul fronte della confezione, il nome del produttore, sostituito dalla denominazione di vendita: semplicemente burro. Segno che esiste una quota rilevante del mercato guidata dal prezzo. Basso. Caratteristica comune però a quasi tutti i comparti dell’alimentare.
Tutto ciò finisce per influenzare negativamente le valutazioni ottenute dalle referenze che ho esaminato nel «garage» del casalingo di Voghera. Non c’è alcun 10 e la maggior parte dei voti sono sotto la sufficienza. Colpa anche della scelta di non indicare sul fronte della confezione, dove compare la denominazione di vendita, l’origine della materia prima. Un’assenza importante visto che difficilmente i consumatori vanno oltre la lettura delle indicazioni riportate nella parte anteriore del packaging.
VOTI PIÙ ALTI
Alla fine a meritare i voti più alti sono i burri Granarolo, primo in classifica con un 8, seguito dai tre prodotti commercializzati da altrettante catene della Gdo: Iper la Grande I e Coop, entrambi con un 7, e Il Viaggiator Goloso (6), che è il marchio del distributore della Unes, insegna controllata da Iper. Oltre sono tutte insufficienze. Frutto anche di scelte infelici nella collocazione delle diciture. Sia quelle di legge, come origine, scadenza e tabella nutrizionale, sia quelle volontarie, come lo stabilimento di produzione. Sulle poche confezioni che lo riportano, si trova nascosto nella parte posteriore, sempre confuso con altre diciture e comunque difficilmente individuabile. È come se i caseifici, con poche eccezioni, ignorassero il valore attribuito dai consumatori all’origine e pure al luogo di trasformazione di quel che acquistano. Valore che invece è molto alto, come ha dimostrato l’indagine sull’etichettatura degli alimenti promossa due anni or sono dal ministero delle Politiche agricole, proprio per valutare la percezione del mercato finale sulla tracciabilità di latte e derivati.
Segnalo, infine, che sulle due referenze straniere che ho censito, per la precisione President e Lurpak, manca del tutto ogni riferimento all’origine della materia prima. Le norme sull’origine, infatti, valgono soltanto per i produttori italiani.