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 2017  settembre 03 Domenica calendario

Democratici in crisi. Mille voci, poche idee

NEW YORK Michael Moore va in scena in uno spettacolo a Broadway. È intitolato “Le condizioni della mia resa”: a Donald Trump, s’intende. Il celebre regista incita il popolo della sinistra a preparare la riscossa. Ma non è tenero con il suo pubblico: uno dei momenti più esilaranti dell’one- man show è una feroce satira dei democratici. Li raffigura come degli ubriachi che si attaccano alla bottiglia di ogni scandalo. Ebbri di felicità, ogni volta sicuri che «la fine è vicina, l’impeachment è alle porte, il partito repubblicano lo sta scaricando». Settimane fa era lo scandalo Russiagate a fornire titoli quotidiani sul tracollo imminente di questa presidenza. Poi Charlottesville, le ambiguità sull’estrema destra. O il perdono presidenziale allo sceriffo condannato per la caccia agli immigrati. Infine, basta scorrere le vignette sui giornali di sinistra per cogliere un inconfessato desiderio che la tempesta Harvey si trasformi per Trump in un bis del disastro politico che fu Katrina per George Bush 12 anni fa. Ho già scritto un intero capoverso di questo articolo senza che il partito democratico sia apparso come il protagonista di qualcosa. Moore ha ragione. Tifare per gli scandali, sperare che il presidente imploda per le sue nefandezze e i terribili difetti caratteriali, non è una linea politica, non è una strategia. E il tempo stringe: tra 14 mesi torniamo alle urne per un test importante, le legislative di mid-term. Una rimonta democratica, se arrivasse fino alla riconquista della maggioranza alla Camera e al Senato, trasformerebbe Trump in un mezzo presidente. Aprirebbe pure l’opzione impeachment. Prima però c’è quella piccola formalità da superare: bisogna vincere. Un elenco delle polemiche di questi giorni ci dice da che parte sta la sinistra. Sulle statue dei generali sudisti, i democratici sono con gli afroamericani: bisogna rimuovere i monumenti allo schiavismo. (Peraltro, un silenzio imbarazzato ha accolto le violenze simmetriche di Antifa, i black block dell’estrema sinistra che affrontano i neonazisti in piazza e nei campus con gli stessi metodi). Su Cristoforo Colombo la sinistra tende a stare con gli ultimi nativi che lo considerano un simbolo del genocidio. Sui transgender nell’esercito i democratici condannano Trump che li esclude. Sull’immigrazione la sinistra vuole salvare la sanatoria di Barack Obama per i clandestini. L’elenco qui sopra è una ripetizione identica dei toni della campagna elettorale 2016: quando fu chiaro che la sinistra puntava su una coalizione di minoranze, etniche sessuali religiose, dando per scontato che l’America bianca è una cosa del passato. Com’è noto, l’America bianca se ne accorse. È la ragione per cui abbiamo Trump presidente. Non c’è nulla, nei messaggi venuti dalla sinistra in questi mesi, che si rivolga in modo forte alla classe operaia del Midwest, l’elettorato-chiave dietro lo shock dell’8 novembre 2016. L’altro problema è la selezione di una nuova classe dirigente. I volti della leadership democratica sono quelli di due generazioni fa, dinosauri come Nancy Pelosi alla Camera, Chuck Schumer al Senato. Più Hillary Clinton che si aggira per promuovere il suo libro. Dalla disperazione alcuni invocano un ritorno di Obama. C’è qualche nome nuovo che avanza, come Kamala Harris senatrice multietnica della California. Qui però si tocca un paradosso. In teoria è naturale, perfino obbligatorio, che il rinnovamento della classe politica democratica attinga ai due principali serbatoi di voti della sinistra: California e New York. Tuttavia un democratico californiano o newyorchese di solito ha posizioni molto radicali, inadatte a recuperare consensi in quell’America “di mezzo” cruciale per la rimonta.