la Repubblica, 2 settembre 2017
La globalizzazione riparte, negli Usa boom di scambi
ROMA Contrordine: il funerale della globalizzazione forse era prematuro. Il commercio internazionale esce da un lungo letargo e torna a crescere. Proprio nel cuore del paese che ha eletto presidente un protezionista, l’import-export è ripartito. Un indicatore “fisico” molto semplice e affidabile viene dai maggiori porti degli Stati Uniti. Quello di New York registra un aumento del traffico merci dell’8% rispetto all’anno scorso, quello di Charleston del 12%. Il porto di Long Beach vicino a Los Angeles ha visto aumentare del 16% le merci in arrivo, soprattutto dall’Asia. Nel primo semestre di quest’anno, che coincideva anche con l’inizio della presidenza Trump, gli scambi fra gli Stati Uniti e il resto del mondo sono aumentati del 6%. Gli americani hanno importato 80 miliardi di dollari in più di prodotti rispetto allo stesso periodo nel 2016, di cui 20 miliardi in più sono made in China. Questo ha fatto nuovamente aumentare (di oltre il 10%) il deficit commerciale che è stato spesso denunciato dallo stesso Donald Trump.
Altri segnali sul revival della globalizzazione si possono trovare in giro per il mondo. La solidità della crescita cinese, confermata dagli ultimi dati sul manifatturiero, ne è un indicatore fedele: poiché la Repubblica Popolare è la fabbrica del pianeta e da anni il maggior esportatore in assoluto, se va bene lei vuol dire che il commercio globale non è poi così depresso. Un altro indicatore settoriale interessante, dal carnet di ordini del gruppo Airbus: deve consegnare 6.771 jet passeggeri entro i prossimi dieci anni. Il grosso sono aerei da lungo raggio A320, i clienti ne attendono 600 all’anno dal 2020 in poi. Le compagnie aeree possono anche sbagliare calcoli e sovradimensionare le flotte (è successo), però allo stato attuale lo scenario sul quale scommettono è quello di un mondo sempre più rimpicciolito, con un boom del turismo di massa internazionale, una riduzione delle distanze e delle barriere.
Ancora poco tempo fa il clima era diverso. E non solo per l’avanzata di movimenti politici protezionisti da Brexit al trumpismo. Anzi, quegli shock elettorali anti-establishment parevano suggellare un trend già in atto nell’economia reale. Dopo la grande crisi del 2008 il commercio globale era entrato in una sorta di glaciazione. Aumentava di poco o niente. Aveva smesso di essere quel motore trainante della crescita che era stato a partire dagli anni Novanta. I nazionalpopulismi sembravano aggiungere la sanzione politica a un fenomeno strutturale. Proprio il settore navale aveva servito da indicatore di una divergenza. Mentre veniva a conclusione un gigantesco progetto infrastrutturale come il nuovo canale di Panama extra-large, si verificava la bancarotta di una delle massime compagnie di navigazione asiatiche, e tanti armatori soffrivano per una sotto-utilizzazione delle flotte. Il super-Panama era parso come il classico investimento dalla tempistica sbagliata, pensato in tempi floridi e venuto a maturazione quando non c’era più la domanda. E invece oggi il rilancio del trasporto marittimo nei porti americani è collegato anche all’entrata in funzione del nuovo Panama, che riduce tempi e costi per i mega- cargo.
Restano le incognite politiche. Trump ha aperto un difficile negoziato per rivedere il trattato Nafta, il mercato unico con Canada e Messico. Il governo messicano è pessimista, ammette che il rischio di un ritiro unilaterale degli Stati Uniti è “alto e reale”. Per prepararsi un piano B, la settimana prossima il presidente messicano Enrique Pena Nieto va in Cina. Questa è una costante della nuova fase del commercio internazionale: chi si sente abbandonato dall’America di Trump può essere accolto a braccia aperte dalla Cina di Xi Jinping. Che aprì l’anno presentandosi al World Economic Forum di Davos come il nuovo leader del globalismo. Questo può spingere verso un’ulteriore “regionalizzazione” degli scambi mondiali, con una serie di accordi bilaterali di libero scambio che la Cina offre ai singoli partner. Non sarà nessariamente un antidoto ai populismi. Un’analisi dell’Eurasia Group indica che “il modo in cui i cittadini vedono la globalizzazione, essenzialmente dipende da quello che la globalizzazione ha fatto o non ha fatto per loro, negli ultimi 20 anni”. Non è un caso se le varianti più protezioniste dei populismi si trovano in Francia, Italia, Spagna, Grecia. Cioè i paesi europei con i più alti tassi di disoccupazione. Lo stesso rapporto di Eurasia Group introduce un elemento di preoccupazione al riguardo: il 70% delle professioni in Europa sono vulnerabili di fronte all’avanzata della robotica e dell’intelligenza artificiale; e una delle ragioni per cui robot e software sostitutivi costano sempre meno è che sono anch’essi prodotti sempre più spesso dai paesi emergenti.