la Repubblica, 2 settembre 2017
I cento giorni del prefetto che lo Stato mandò allo sbaraglio
Tutta la città lo aspettava la settimana dopo. Con il cuore in gola. E con le fanfare, i pennacchi, i brividi e le grandi uniformi. La cerimonia ufficiale per l’insediamento del cinquantottesimo prefetto di Palermo dall’Unità d’Italia. Ma qualcuno lo vide già quel pomeriggio aggirarsi fra le palme di piazza Politeama, sotto il palco dove l’indomani mattina avrebbero parlato il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il Presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer.
Era solo, addosso aveva un bel vestito grigio, dall’altra parte della piazza c’era un tassista che lo seguiva sospettoso con lo sguardo. Un’ora dopo Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei carabinieri in congedo, uno che di se stesso diceva che «gli alamari li aveva cuciti sulla pelle», era entrato su un taxi nella sontuosa Villa Whitaker – la sede della Prefettura – sfilando davanti ad ossequiosi funzionari che si erano esibiti nei loro soliti inchini d’ordinanza. Era il 30 aprile del 1982.
Di mattina, in un budello dietro il parlamento siciliano, sicari di mafia avevano ucciso Pio La Torre. Il generale e il leader comunista si conoscevano dal ‘48, si erano incontrati a Corleone quando Luciano Liggio e i suoi scagnozzi avevano fatto sparire il sindacalista Placido Rizzotto. E, da allora, non si erano mai più persi di vista. Quella sera di trentacinque anni fa si aprì una delle grandi tragedie italiane che appena quattro mesi dopo («I suoi cento giorni a Palermo», riassunsero nei titoli i giornali quando il generale fu ucciso il 3 settembre successivo insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e al poliziotto Domenico Russo) cambiò per sempre la storia di Palermo e anche quella della lotta alla mafia nel nostro Paese.
Carlo Alberto dalla Chiesa, il carabiniere più amato fra i carabinieri – per le truppe però, mai per gli alti comandi – un mito della lotta al terrorismo, una leggenda inviata in Sicilia per combattere quella Cosa Nostra che aveva firmato tanti “delitti eccellenti”. Un generale mandato allo sbaraglio dallo Stato. Omicidio premeditato, annunciato, omicidio fortemente voluto per chiudere il conto con un grande italiano diventato troppo ingombrante per quell’Italia.
Generale, perché hanno assassinato Pio La Torre? «Per tutta una vita», rispose la mattina dei funerali del segretario regionale del Pci in mezzo a una folla infuriata con i potenti di Sicilia che sembravano mummie sul palco della piazza. C’era il presidente della Regione Mario D’Acquisto, amico di Salvo Lima. C’era il sindaco Nello Martellucci, amico di Salvo Lima. C’erano tutti i notabili del Comune, amici di Salvo Lima. E tutti, insieme, erano amici di Giulio Andreotti.
Il generale sapeva bene chi fossero e, proprio un mese prima di scendere in Sicilia, a Spadolini aveva scritto: «La famiglia politica più inquinata di Palermo avrebbe già inviato messaggi a Roma per impedire che mi vengano conferiti poteri più ampi..».
Poteri che non ricevette mai in quei quattro mesi («Ho gli stessi poteri del prefetto di Forlì», ripeteva lui») di isolamento dentro una città ostile che ironizzava sulle sue origini: «Cosa può mai capirne di mafia questo piemontese?».
Dopo il centesimo omicidio dall’inizio di quel 1982 qualcuno telefonò al centralino del giornale L’Ora annunciando: «L’operazione da noi chiamata Carlo Alberto l’abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa».
Intanto il sindaco di Palermo Martellucci invece di mafia continuava a dire “malefica tabe”, la Prefettura era un covo di spie, Roma aveva abbandonato al suo destino il carabiniere più famoso.
L’“operazione Carlo Alberto” si chiuse la sera del 3 settembre, in via Isidoro Carini. I macellai di Totò Riina gli scivolarono alle spalle. Un siciliano senza nome appese un cartello sul muro: «Qui è morta la speranza dei palermitani onesti».
Nella basilica di San Domenico funerali solenni con l’omelia del cardinale Salvatore Pappalardo su “Sagunto espugnata”. Dolore e rabbia. Con il figlio Nando che puntò il dito contro i notabili della Dc, tutti i nemici di suo padre, diventando – lui, il figlio – l’unico “colpevole” di quell’estate. Dieci giorni dopo il massacro il Senato approvò i 35 articoli della legge antimafia – che portava il nome di Pio la Torre e del ministro degli Interni Virginio Rognoni – sull’associazione mafiosa e la confisca dei beni.
Quindici giorni dopo i familiari entrarono nella stanza da letto del generale. E trovarono soltanto una scatola vuota dentro una cassaforte vuota.