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 2017  settembre 02 Sabato calendario

Dal 2018 contratti più cari di un terzo. Effetto fine degli sgravi del Jobs Act

ROMA Nel 2018 quasi un milione e mezzo di contratti diventeranno più costosi. Finiscono gli sgravi contributivi totali, voluti dal governo Renzi nel 2015. E dopo un triennio light, il peso di questi lavoratori tornerà a farsi sentire sui bilanci delle aziende. Cosa succederà? Se l’opzione del licenziamento di massa – oltre che non auspicabile – pare anche irrealistica, non così il possibile effetto tappo verso le nuove assunzioni. In altri termini, le politiche del lavoro di un’impresa potrebbero essere condizionate da un costo del personale che si alza. Al punto da indurre più di qualcuno a rinunciare a nuovi ingressi. Un problema anche per il governo, all’indomani di dati sul lavoro in chiaroscuro, con l’80% dei nuovi contratti, stipulati nel primo semestre dell’anno, non stabili e dunque a tempo determinato. Ecco perché Palazzo Chigi studia con cura il dossier dei nuovi incentivi da inserire in manovra. Ed ecco spiegato perché Confindustria quegli sgravi li vuole totali – e non al 50% – come fu proprio nel 2015. Anche per bilanciare questo nuovo effetto.
La strada del licenziamento, va detto, potrebbe tentare qualche imprenditore. I lavoratori in questione – 1 milione e 443 mila, dati Inps, per il 60% uomini – non solo sono stati benedetti da uno sconto totale dei contributi fino a 8.060 euro all’anno. Ma sono entrati in azienda senza l’ingombrante (per gli imprenditori) ombrello dell’articolo 18, abolito dal Jobs Act nel 2014, che per oltre quarant’anni ha protetto con il reintegro i licenziamenti illegittimi. E dunque per un’azienda che tra quattro mesi rinunciasse a qualche lavoratore assunto nel 2015, anche senza giusta causa, basterebbe pagare un indennizzo pari a sei mesi (due mesi per anno). Forte del fatto che comunque il beneficio netto – tra sgravi incamerati e Irap azzerata in entrata, risarcimento per il lavoratore in uscita – sarebbe positivo. L’ufficio studi della Uil calcola in circa 15 mila euro l’incasso finale a vantaggio dell’azienda, per un lavoratore con stipendio medio da 25 mila euro lordi annui.
Esercizio per ora teorico. Nella stragrande maggioranza dei casi l’effetto della fine degli incentivi costringerà piuttosto gli imprenditori a fare i conti con una voce di costo in crescita. A partire da gennaio, al ritmo medio di 120 mila lavoratori al mese, il cedolino di alcuni dipendenti peserà un terzo in più. In gennaio “quelli del 2015” saranno 80 mila, tante quante furono le assunzioni agevolate in quel mese. In dicembre ben 273 mila, al top dell’anno, allorquando si registrò la corsa delle imprese a prendere lo sgravio al 100%, sapendo che il governo l’aveva dimezzato per il 2016. Oltre il 70% di questi lavoratori è over 30. Un quarto over 40 e un quinto over 50. A conferma che gli incentivi non hanno premiato i giovanissimi. Un motivo in più per credere che non verrà usato il pugno di ferro contro personale non solo maturo, ma esperto visto che un quarto (circa 364 mila su un milione e mezzo) è in azienda da più di tre anni e che nel 2015 coronò il sogno di veder trasformato il contratto da tempo determinato a tutele crescenti, il nuovo modello introdotto dal Jobs Act. Il problema si porrà soprattutto al Nord Ovest e al Sud – Lombardia, Lazio e Campania su tutti – laddove il bonus fu adottato con entusiasmo.
In ogni caso, un nodo per le aziende. E anche per chi nel governo deve impostare il capitolo più importante della manovra: i giovani.