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 2017  settembre 02 Sabato calendario

Longobardi, la cerniera dell’Italia

Gente che fugge, dalla guerra e dagli orrori. Spaventata. Impaurita. Sembrerebbe un’immagine di oggi, invece siamo in un tempo lontano. Negli anni che seguono il 774. Pavia, la capitale del regno longobardo, è caduta. I Longobardi sono stati travolti, mentre i Franchi di Carlo Magno sono i nuovi signori d’Italia. Per la gente dalla lunga barba sembra arrivata la fine. Una speranza però c’è, per chi ancora tiene allo spirito longobardo: guardare al Mezzogiorno. Spingersi cioè fino al Ducato di Benevento dove ancora ci sono Longobardi, liberi di vivere e di governare. E, qui, trovare un rifugio, solidarietà, nuove speranze di vita.
La Longobardia minore era questo. Un territorio tutto longobardo strappato ai Bizantini nel corso di lunghe e cruente guerre, con una invasione che era cominciata nei primi decenni del VII secolo. E che si era protratta a macchia d’olio, dagli attuali Abruzzi fino alla Puglia e al nord della Calabria. Lasciando ai Bizantini solo lo spazio di piccole enclave sulla costa, tra cui Napoli. Impresa lunga e laboriosa, culminata nella creazione di un Ducato, con capitale Benevento, ma che poggiava la sua forza pure su altri centri, come Capua e Salerno.
I profughi arrivano. E trovano chi li accoglie. Un personaggio straordinario che si chiama Arechi, il secondo della sua dinastia. L’uomo della recuperata dignità bizantina. Egli, infatti, non solo riceve gli esuli e concede loro terre e nuove chance per ripartire. Piuttosto, rimarca un’appartenenza, in contrasto con gli invasori carolingi. Non si sente più duca dei longobardi ma, per la prima volta, con una volontà ferrea di distinzione, si proclama principe. Affermando così l’autonomia e l’indipendenza del suo dominio contro l’appropriazione violenta del titolo regio da parte di Carlo. Una decisione dalla forte sensibilità identitaria che sottolinea la consapevolezza che il destino del popolo longobardo non era finito a Pavia, ma continuava a sopravvivere, in maniera lucida e consapevole, nelle terre del Sud. E, d’allora, l’autorità longobarda su queste terre durò a lungo. Per altri tre secoli, fino all’arrivo di una nuova stirpe raminga, quella dei Normanni.
Tre secoli sono tanti. Con un percorso tutt’altro che lineare, anzi tortuoso e, per tanti versi, drammatico. Ce n’è per tutte le salse, come in una saga da Trono di spade : la suddivisione in tre del principato con altrettante capitali, Capua, Benevento e Salerno; gli scontri interni e le guerre civili; la formazione di signorie territoriali o di teste di ponte musulmane, come l’Emirato musulmano di Bari, che sopravvisse fino all’871 o il ribat del Garigliano, distrutto nel 915. Dominio che comunque sopravvive alle difficoltà, sino a Roberto il Guiscardo e all’inizio di un tragitto nuovo e inatteso.
La vicenda della Longobardia minore colpisce soprattutto per un aspetto: che non siamo di fronte ad una società chiusa, impermeabile ai contatti; ma, invece, ad una terra di confine. Che fa da cerniera non solo fra Nord e Sud ma anche tra Est ed Ovest, come notava lo storico Nicola Cilento, il quale sottolineava come «fra le civiltà diverse d’Oriente e d’Occidente l’Italia meridionale longobarda (…) si inserisce come una frontiera di attiva mediazione, aperta alle penetrazioni ed alle influenze più disparate».
Basti pensare agli aspetti commerciali, solo da poco esplorati con attenzione, che hanno messo in luce come i centri longobardi fossero coinvolti nel grande circuito di scambio mediterraneo, che aveva i suoi fulcri a Costantinopoli, sulle coste medio-orientali, a Fustat-il Cairo, nel nord Africa, a Palermo o nelle città islamiche spagnole. Esisteva insomma nella Longobardia minore una rete, che si articola sempre meglio, dall’epoca di Arechi in poi, la quale, attraverso una serie di vie fluviali e di strade, permetteva alla produzione dell’entroterra di arrivare fino a diversi collettori, tra cui emerge, per ruolo e importanza, la città di Salerno, definita nelle cronache contemporanee opulentissima.
Un mercato che guarda lontano, quello longobardo. Che dal X secolo viene irrorato da monete d’oro musulmane, i cosiddetti tarì, i quali innescano un circuito virtuoso che consente agli imprenditori longobardi non solo di comprare nuove terre ma di elevare il proprio tenore di vita attraverso un import/export di prodotti di lusso, come gioielli, stoffe, abiti, sete. Un aspetto che non deve meravigliare, vera e propria cartina di tornasole dell’adagio business as usual, dove l’attesa commerciale riesce a scavalcare qualunque tipo di difficoltà. Religiosa, sociale o geografica che sia.
La presenza longobarda non scompare con i tempi nuovi della dinastia normanna. Le tracce continuano a sopravvivere, vivide, per molti versi ancora oggi, nel nostro linguaggio quotidiano come nella toponomastica (basta pensare ai Gualdi o alle Fare!).
Senza dimenticare l’apporto fortissimo che la scrittura beneventana ebbe sulla cultura europea, grazie alla mediazione del monastero di Montecassino. Un ultimo esempio da cui si comprende cosa fosse il mondo longobardo: tutt’altro che chiuso, interprete di grandi complementarità.