Sette, 31 agosto 2017
Intervista a Michele Placido. «Preferirei che Dio fosse donna: mi fiderei molto di più»
Stato, chiesa, famiglia: non c’è più niente di sacro. Lo pensano in tanti, lo dice Suburra, la prima serie italiana di Netflix. Tra i suoi registi, Michele Placido, persona complessa: non risponde perché deve ma ragiona su ogni parola, il che, specie in certi ambienti, non è un dettaglio. Dunque è vero che ogni cosa è stata ormai profanata? Andiamo con ordine: lo Stato?
«Che gli italiani abbiano perso fiducia è un dato. La parte politica che sembrava il nuovo che avanzava – nel Pd, per fare qualche nome, quella che doveva sostituire l’ormai anziano premier Silvio Berlusconi non solo per l’età ma per i suoi scandali, ha perso l’occasione: anche loro si sono lasciati coinvolgere in situazioni poco chiare, come l’affare delle banche o la cattiva gestione dei migranti. Il Pd sta peggio di prima: volevano rottamare ma si sono autorottamati».
Di Grillo? Che cosa pensa?
«Il suo non è un gruppo così coeso. Il Movimento 5 Stelle sta perdendo sul piano politico perché, anche in questo caso, ci sono situazioni poco chiare. Roma non funziona e Roma è la capitale d’Italia oltre che la più corrotta del mondo. Non funziona con un sindaco che è lì da un anno: non so quanti romani le rinnoverebbero la fiducia».
Siamo negli anni del populismo, si vota di pancia...
«Succede se quello che dovrebbe essere il motore più alto della politica cede di fronte a interessi personali. Penso a Mafia Capitale: solo Massimo Carminati e Salvatore Buzzi sono stati condannati a pene pesanti, ma se si legge la loro condanna si trovano nomi importanti che hanno coltivato una criminalità diffusa tra i burocrati dell’amministrazione romana. Sono i politici che fanno entrare questi signori nella pubblica amministrazione e affidano loro grossi incarichi. Se sei un sindaco e amministri una città non puoi non accorgertene: sei il primo responsabile e dovresti essere il primo a dimetterti. Invece tutti questi politici non sono stati mai condannati per simili sbagli. E allora cosa stanno lì a fare? Immagine? Questi figuri poi presentati come gangster non sono i soli colpevoli: chi li ha messi lì? Ma alla fine non si cercano spiegazioni, que- sta è l’Italia...».
Basta, ogni volta, sistemare tutto sotto un gigantesco tappeto?
«Ci accontentiamo e non pretendiamo risposte. Ecco perché poi rinasce Berlusconi; dopo averli passati tutti al setaccio finisci per dirti che lui era il meno peggio: “Va beh, era il più simpatico. Si presenta bene, fa le battute, i sorrisi...”. E non importa se le parole uccidono più delle spade, come dice il Vangelo».
Ecco, arriviamo alla Chiesa.
«Notizie gravissime anche dal Vaticano: penso alle violenze, agli abusi sui bambini. Come fai ad avere fiducia nelle istituzioni, Chiesa compresa? Una persona minimamente sensibile qualche dubbio inizia ad averlo».
Papa Francesco prova a cambiare le cose, o no?
«Ogni tanto arriva l’uomo della speranza, in questo smarrimento. Papa Francesco ci fa riprendere fiato... Parla da uomo ad altri uomini per aiutarci a ritrovare quel minimo di speranza, fiducia o fede, chiamiamola come vogliamo».
Lei è un credente non praticante?
«Io pratico tutte le ore della giornata. Avendo studiato in un collegio di missionari ho uno spirito religioso molto forte. Però mi dà fastidio che Dio sia definito al maschile. Siamo portati a immaginarlo come un signore con la barba che ci guarda dall’alto dei cieli. Io, quasi alla fine del mio viaggio, forse qualche pensiero non dico più profondo ma un po’ più vicino a quello che la mia intelligenza mi propone me lo sono fatto e credo che Dio non sia né maschio né femmina... E, se proprio dovessi scegliere un genere, mi piacerebbe fosse donna, ho più fiducia in loro. Mia madre, vedova, ha amministrato una casa intera con otto figli e so con quale saggezza, con quale capacità umana ma anche intellettuale sia riuscita a farlo, pur essendo una donna del popolo».
Qual è la cosa più importante che le ha insegnato sua madre?
«A essere me stesso. Sia con me che con i miei fratelli è sempre stata attenta a lasciarci liberi. Anche nei nostri comportamenti religiosi. Pur essendo lei cattolicissima, una devota di Padre Pio, non massifica tutto quello che viene detto da un pulpito: ha una libertà di pensiero per me anche superiore a quella di suo fratello, che era un sacerdote. Da ragazzo mi diceva: “Se ci fossero state più femmine ai governi, Michelino mio, ci sarebbero state meno guerre: le mamme ci pensano almeno tre volte prima di mandare i figli a sparare”.
Ha avuto una vita sentimentale appassionante: sua madre non l’ha mai giudicata nemmeno per questo?
«L’ho avuta perché amo le donne» (ride, ndr). No, mia madre non mi ha mai giudicato e ha sempre rispettato le scelte di tutti, non solo le mie: i matrimoni dei suoi otto figli non sono sempre riusciti, ma lei ha saputo sempre guidare senza giudicare. Non ha mai dato ragione a noi per partito preso. Negli anni del collegio, quando avevo dai 9 ai 12 anni, mi è molto mancata. Sono stati anni duri, di disciplina ferrea».
Come l’ha cambiata quella esperienza?
«Mi ha arricchito. Avevo scelto io di andare in collegio perché volevo diventare un missionario: mi chiedo ancora oggi come fosse possibile sentire la vocazione a nove anni, eppure è successo. Non era un misticismo fanatico: forse era solo necessità di un po’ di silenzio, avendo una famiglia numerosa».
E poi la vocazione che fine ha fatto?
«L’ho ritrovata a 18 anni quando è apparso Che Guevara. Per me era una figura cristiana, un liberatore degli oppressi. I riferimenti che mi hanno accompagnato negli anni sono stati prima Cristo e poi lui. Ora ci metto anche il Papa, perché ha lo stesso spirito: non parla ai potenti, tanto non ascoltano. Parla agli umili».
Passiamo alla famiglia. Lei ha avuto due mogli e ha cinque figli...
«Mia moglie, Federica, è molto più giovane di me. Per questo all’inizio sono circolate molte chiacchiere su di noi. Probabilmente ci lasceremo, forse è anche giusto, ma adesso ho 71 anni e ancora molta energia. Siamo insieme da 17 anni e il 14 agosto abbiamo festeggiato quattro anni di matrimonio: nel frattempo abbiamo avuto una figlia, che non c’è più purtroppo, e un figlio. Le relazioni di alcuni miei nipoti sono durate cinque anni, matrimonio compreso, eppure mi criticavano anche loro: “Zio, a te piace la ragazzina”. Quando li incontro adesso gli dico: “Ma dove è la tua di ragazzina?”. Non è una questione di età ma della forza dell’amore. Ho avuto un grande maestro in questo».
Chi?
«Mario Monicelli: ho condiviso con lui la sua ultima opera, Le rose del deserto. A 90 anni dirigeva, io ero il primo assistente: nel caso si fosse stancato troppo avrei dovuto sostituirlo sul set: per questo non mi sopportava. “Vai via, porti male, allontanati”. Lo diceva scherzando, mi aveva scelto lui. Negli ultimi anni uscivamo assieme e parlavamo, anche dei nostri affetti. Lui ha avuto un percorso simile al mio e una relazione con una donna molto giovane, Chiara, che ha amato tantissimo. E che si è fatta da parte quando lui le ha chiesto di allontanarsi, quando le ha chiesto una separazione. Lo ha fatto per lei e penso sia una cosa giusta».
Anche lei si è dato un tempo?
«Sì. Mi sarebbe piaciuto incontrare prima Federica, ma ringrazio per quello che è accaduto. A lei dico: non ti preoccupare, altri due o tre anni. Avevo deciso di separarmi a 70 anni. Ora invece stiamo prolungando il contratto anno per anno. E se dovesse avvenire, non ci saranno pettegolezzi: è stata una storia bella e lunga. Oggi mio figlio, il più piccolo, mi impegna molto più di quando ne avevo tre, di bambini. Lo devo accompagnare nei suoi ritiri calcistici, alle
narmi con lui, sono a dieta perenne. E quindi mi dico: può ringiovanire un sentimento? Sì, e ancora di più se hai un figlio piccolo, un bambino da crescere».
Sembra tutto semplice, raccontato così.
«Ma non lo è stato: i miei figli non hanno accettato Federica con un applauso, all’inizio. Hanno sofferto tanto. Adesso sono i primi ad affidarsi a lei e c’è un grande rispetto. Se le cose sono autentiche dopo un po’ le riconosci».
Si sente davvero alla fine di un viaggio?
«Mi viene in mente una poesia di Giorgio Caproni che parla, appunto, del saluto finale ad amici e conoscenti. Sì, sento che il viaggio sta per finire. Non significa che finisca ora ma è necessario essere obiettivi. Bisogna iniziare a prepararla, la valigia, perché ce ne vuole prima di chiuderla nel momento in cui devi davvero partire per la grande meta. Ci penso ogni giorno che incontrerò un Dio che mi giudicherà».
E questa idea non la spaventa?
«Credo che ognuno si giudichi da solo, in punto di morte: ti chiedi se hai fatto il tuo dovere. Non penso all’inferno o al paradiso, Dio ce ne scampi. Ritengo la vita un dono e la speranza è di averla vissuta bene. Ripenso a Shakespeare che parla dello spasmo del rendiconto, cioè quell’essere in pace con noi stessi o no quando avverrà: andiamo incontro alla morte ad occhi aperti, cioè guardandola, scrive. Viviamo sempre ad occhi aperti, direi io. Gli errori si fanno ma quello che conta è capire, alla fine, di non avere buttato via la vita.