Pagina99, 25 agosto 2017
Come nasce la bolla che ci rende sudditi
Fake new, post-verità e fìlter bubble: per larga parte degli addetti ai lavori, sono questi i tre nemici giurati della nostra epoca digitale.La causa andrebbe cercata nei social network, gli strumenti che generano questi fenomeni e sono responsabili in particolare dellabolla di filtraggio: una gabbia rassicurante afl’intemo della quale, grazie all’intervento degli algoritmi, vediamo solo contenuti che confermano quelle che già sono le nostre credenze. Lungi dal mantenere la promessa originaria del web, ovvero offrire agli utenti un’informazione libera e diversificata, Facebook e compagnia non farebbero che mostrarci quello che vogliamo vedere, tenendoci ben al riparo da informazioni che potrebbero incrinare le nostre certezze e rendere la nostra esperienza sui social media meno confortevole.
Ma è proprio così? Una recente ricerca del Reuters Institute – condotta tra Stati Uniti, Germania e Regno Unito – dimostrerebbe come le persone che usano i social network a scopi di esclusivo intrattenimento (e che quindi non vanno su Facebook, Twitter & co. in cerca di notizie e informazioni) incapperebbero comunque, per quanto incidentalmente, in un numero di fonti informative quasi doppio rispetto a chi, semplicemente, i social media non li usa proprio. Negli Stati Uniti, per esempio, i “non utenti” si informano in media attraverso 1,8-fonti; mentre tra chi utilizza Facebook e gli altri il numero sale a 3,29Ancora migliore, chiaramente, è la dieta informativa di chi utilizza i social network anche per leggere news e approfondimenti: tra costoro si arriva a 5,16 fonti per persona.
Più fonti, ovviamente, non significa una maggiore diversità di opinioni. Ma, si sottolinea nello studio, «quando si ha a che fare con numeri così bassi è probabile che ogni aumento nel numero di fonti porti necessariamente a un consumo più diversificato». Dunque ha ragione MarkZuckerberg, che ha sempre negato l’esistenza della bolla di filtraggio?
Non secondo Luciano Floridi, filosofo dell’informazione di Oxford e una delle voci più ascoltate su questi temi: «Ho l’impressione che questi studi vogliano trasmettere l’idea che il problema non esista, o che vada ridimensionato, soltanto perché le cose potrebbero andare anche peggio», spiega a pagina99. «Certo, chi ha accesso a Internet si informa un po’ di più di chi, magari, consuma solo massicce dosi di televisione; ma questo non significa che la filler bubble non esista. La bolla, invece, esiste ed è un problema che non si risolverà semplicemente mostrando come le cose potrebbero essere anche peggiori».
Lo stesso si potrebbe dire per quanto riguarda un altro recente studio – condotto per il National Bureau of Economie Research da tre professori dell’Università di Stanford e della Brown University – che punta a smontare il rapporto tra polarizzazione politica e social media, solitamente accusati di essere correlati e di aumentare la faziosità a livelli da tifoseria, fino a rendere gli appartenenti a diverse posizioni politiche incapaci di comunicare tra di loro. Secondo i ricercatori, pur ammettendo la possibilità che i social media non migliorino la situazione, le persone più polarizzate sono, in media, quelle che non usano Internet. Non solo, molto più dell’utilizzo di Facebook o del web, sulla polarizzazione influirebbe l’età: più si è in là con gli anni (e generalmente meno propensi a utilizzare Internet) e più le posizioni politiche sono inamovibili.
Meglio Barabba di Gesù
Matthew Gentzkow, uno degli autori dello studio, ha sottolineato un altro aspetto: la grande attenzione che si è data ai social media ha fatto dimenticare come sia ancora oggi la televisione il mezzo principale attraverso il quale la gente si informa sulla politica. E come questo sia vero soprattutto tra i più anziani. È quindi alla televisione che, ancora oggi, dobbiamo dare la colpa dei mali della politica e dello stato non brillante in cui ver sano le democrazie occidentali? «Non mi sorprendono i risultati di questa ricerca e non sono nemmeno criticabili», osserva Luciano Floridi. «Resta però una visione parziale: va da sé che chi non usa internet, ma è molto esposto all’informazione televisiva, sia più polarizzato. Non è un fenomeno nuovo: già i giovanissimi della mia generazione, e di quelle ancora precedenti, tendevano a essere politicamente inquadrati; basti pensare all’importanza che avevano formazioni come i Giovani Comunisti o il movimento giovanile della Democrazia Cristiana. I social network si sono inseriti in un contesto in cui la polarizzazione era un fenomeno già ampiamente esistente, ma nella misura in cui questo fenomeno poteva essere esacerbato, lo hanno fatto. Che poi i più polarizzati siano quelli che guardano molta televisione, soprattutto negli Stati Uniti dove la qualità dell’informazione offertadallatvè pessima, non è nulladi sorprendente».
Il concetto è semplice: non è solo chi sta sui social network a vivere in una bolla. Tutti noi tendiamo a circondarci, da ben prima di Internet, di amici, colleglli, giornali, programmi televisivi in linea con quelli che già sono i nostri valori. Si potrebbe chiamare ’fìlter bubble della vita offline”, se non fosse che un concetto simile risuona da molto più tempo con il nome di daily me. Il vero problema, semmai, è che i social network e l’open web, per loro stessa natura, avrebbero dovuto rompere queste gabbie, non contribuire a rafforzarle: «Esarebbestatocosì,senoi nonli avessimo snaturati», spiega ancora Floridi. «Il digitale, per sua natura, ha la funzione di scardinare: è nel suo Dna. Stando online, è inevitabile incontrare opinioni differenti e persone che la pensano in maniera diversa. Attraverso la commercializzazione, motivata dalla pubblicità, noi abbiamo invece soggiogato il web. Lo ha ammesso lo stesso Zuckerberg quando ha affermato, difendendosi dalle accuse, che Facebook dà ai suoi utenti ciò che vogliono. Ma questa è la cosa peggiore che si possa fare: le persone preferiranno sempre Barabba a Gesù Cristo».
Prima la pubblicità, poi la democrazia
Il punto è come uscire da questa situazione. Facebook si sta organizzando per trovare un modo efficace di contrastare le falce news. Ma è impossibile aspettarsi che siano gli stessi social network a decidere di rompere lafìlter bubble, visto che è an che attraverso questo meccanismo che viene massimizzata la raccolta pubblicitaria: «Il problema non è la commercializzazione in sé, ma la forma sbagliata di commercializzazione che regola i social media, in cui noi paghiamo i servizi con i nostri dati invece che con i nostri soldi», spiega ancora Luciano Floridi. «Pagando in dati, vendiamo di fatto il nostro profilo per logiche pubblicitarie e così si crea il circolo vizioso che porta aWafilter bubble. Una via d’uscita, allora, potrebbe essere quella di vietare la pubblicità online: in questo modo saremmo costretti a cambiare modello, elimineremmo il problema del click-bait (le notizie urlate che tanta parte hanno anche nella logica delle fakenews, ndr) e si creerebbe unaveracompetizione».
Perché servono nuove regole
Per quanto possa sembrare solo una provocazione, il divieto di pubblicità online – e il ritorno di un modello a pagamento – avrebbe anche un altro vantaggio: renderebbe attaccabili le posizioni di colossi (come Facebook, ma anche Google o Amazon) che oggi hanno accumulato una tale quantità di dati da avere un enorme vantaggio strategico su chiunque voglia mettersi in competizione con loro (cosa che infatti nessuno fa). «Il problema è che, al momento, non vedo né volontà, né interesse a modificare il meccanismo. Non basta dire che lefìlter bubble non vanno bene; bisogna togliere l’incentivo che le fa esistere. Per arrivare a questo punto, però, ci vorrebbe una sorta di rivolta delle masse; o magari della politica: se le cose continuassero ad andare sempre peggio, in termini di maggiore estremizzazione e populismo cavalcante, a un certo punto qualcuno potrebbe anche capire che i danni e le conseguenze da pagare sono talmente gravi da rendere necessario un cambiamento. La questione, però, è molto difficile da sollevare e non ottiene ancora molto ascolto».
Eppure si tratta di un problema che rischia di intaccare la qualità delle nostre democrazie. «L’idea della fine della storia, secondo la quale le democrazie liberali avevano la strada spianata dopo la caduta dell’Unione Sovietica, era risibile già all’epoca; maoggi è irresponsabile», prosegue Floridi. «Abbiamo abbassato la guardia, e le cose non sono andate nella direzione giusta. Vorrei che la gente fosse seriamente preoccupata dallo stato della democrazia nel mondo». Una preoccupazione confermata anche dall’ultimo Democrac}’ Index, secondo il quale solo 19 nazioni nel mondo su 167 possono dirsi compiutamente democratiche. E tra queste non ci sono né gli Stati Uniti, né, per quanto ci riguarda, l’Italia.
Ovviamente, nonostante le questioni sollevate, è impossibile accusare i social network di essere la causa prima di questa situazione: «Probabilmente Donald Trump avrebbe vinto lo stesso, perché c’erano molte altre variabili in gioco», conclude Floridi. «Ma se Facebook e gli altri media digitali non avessero fatto il pessimo lavoro che hanno fatto, come ha ammesso anche lo stesso Zuckerberg, ci sarebbe stata una variabile in meno; una variabile in grado comunque di provocare spostamenti significativi. Manca un po’ il senso dell’emergenza: si tende a pensare che, tutto sommato, le cose possano continuare come prima. Sono convinto che a un certo punto prenderemo i giusti rimedi, ma sarebbe meglio riuscire afarlo prima di trovarci aberel’amaro calice».