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 2017  agosto 11 Venerdì calendario

Un mare di plastica

Chissà se un batterio riuscirà finalmente a risolvere il problema: gli oceani, in effetti, sono sempre più pieni di plastica, ovvero di ciò che resta di tutti gli imballaggi che utilizziamo, e che in un modo o nell’altro finiscono in mare. L’Ideonella sakaiensis è proprio un batterio mangia-plastica: è capace di degradare il polietilene tereftalato (il cosiddetto Pet), il materiale con cui sono fatte le bottiglie. E ancora più vorace sembra essere un bruco, la larva della tarma della cera (Galleria mellonelld) comunemente usata come esca dai pescatori. Questo “vermetto” è addirittura in grado di mangiare e degradare il polietilene (Pe), una delle plastiche più resistenti e più diffuse. Ma non sono le uniche soluzioni in cantiere per un problema che sta diventando sempre più grande.
C’È MA NON SI VEDE. Bottiglie, tappi, cannucce, sacchetti e quel che ne resta sono infatti dispersi in gran numero in tutti i mari del mondo: si stima che ogni anno dalle regioni costiere finiscano in acqua tra i 4,8 e 12,7 milioni di tonnellate di plastica. Ristagnano sui fondali o sulle spiagge e galleggiano in superficie. Anche nelle acque considerate incontaminate: come al largo delle isole Svalbard, in Norvegia. «Si tratta perlopiù di microplastiche, cioè particelle di dimensioni inferiori ai 5 millimetri», spiegano gli autori di uno studio, tra cui l’italiana Valentina Tirelli dell’Istituto nazionale di Oceanografia e di Geofisica sperimentale, che per primo ne ha documentato la presenza nelle acque dell’Artico. «Sono soprattutto fibre e questo suggerisce che in questo caso derivino dalla degradazione di oggetti molto grandi, trasportati presumibilmente alle Svalbard dalle correnti o derivanti da attività marittime locali». Questi minuscoli pezzetti (anche mille volte più piccoli del millimetro) costituiscono una minaccia senza confini e avvelenano anche il nostro mare. «Il valore medio di microplastiche per metro cubo in Mediterraneo è simile, se non addirittura superiore, a quello riscontrato nelle “isole” di spazzatura nell’oceano Pacifico», avvisa Marco Faimali, responsabile dell’Istituto di Scienze marine del Cnr di Genova.
Il “brodo” formato da acqua e pezzetti di plastiche in cui si stanno trasformando i mari non è infatti ugualmente denso in tutto il pianeta: a causa delle correnti è molto più concentrato in 5 aree ben determinate (inquadra l’ultima pagina del servizio con la app di Focus per vederle). Intendiamoci, non si tratta di isole vere e proprie, ma di giganteschi accumuli di frammenti di rifiuti di ogni dimensione, perlopiù piccolissimi. Del resto, la microplastica è ovunque: perfino in molte aree marine protette. Per esempio, come segnala Greenpeace nel report Un Mediterraneo pieno di plastica, nel Parco Nazionale dell’Arcipelago di Cabrerà, nelle Isole Baleari del Mediterraneo Occidentale, e nel Parco Naturale della Baia di Telascica, in Croazia. E questo perché le correnti trasportano i rifiuti fino a grandi distanze e più velocemente di quanto si possa immaginare.
MEDITERRANEO A RISCHIO. E COSÌ, «il mar Mediterraneo rischia di diventare sempre più una “zuppa” di plastica e spazzatura, invaso da rifiuti galleggianti o giacenti sui fondali che alla lunga, a causa di processi degradativi innescati dal sole, dalle onde, dal vento, si frammentano in particelle sempre più piccole», afferma Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente. Non c’è da stupirsi: è un bacino chiuso, densamente popolato sulle coste e caratterizzato da un notevole traffico marittimo, tutti fattoriche lo rendono più vulnerabile all’inquinamento. Per non parlare dei rifiuti spiaggiati che contaminano anche gli angoli più remoti del mondo, come le coste della disabitata isola di Henderson, la più grande dell’arcipelago delle Pitcairn, nel Pacifico Meridionale: dove sono stati rintracciati circa 37,7 milioni di detriti di plastica per un peso complessivo di 17,6 tonnellate (671 pezzi per metro quadrato). Un fenomeno da cui le nostre spiagge non sono certo immuni: stando ai dati di Legambiente, in Italia in media si trovano 671 oggetti ogni 100 metri lineari di litorale (la media europea è di 561 rifiuti ogni 100 metri). E la plastica è la regina indiscussa di questa spazzatura (vedi disegno qui sopra): un rifiuto su tre, tra l’altro, è un imballaggio. Preoccupa anche lo stato di salute delle spiagge degli altri Paesi del Mediterraneo (Algeria, Croazia, Francia, Grecia, Spagna, Tunisia, Turchia), invase in particolare da mozziconi di sigarette e buste. «Il punto è che ogni anno vengono prodotte quasi 300 milioni di tonnellate di plastica e il 10% finisce in mare», avverte Faimali.

BRODO VELENOSO. Uno studio del Consiglio nazionale delle ricerche di Lerici (La Spezia) ha recentemente individuato di che cosa sono fatte le plastiche galleggianti in mare aperto nel Mediterraneo Occidentale: si tratta soprattutto di polietilene (il polimero di cui sono fatti i sacchetti) e polipropilene (con cui si fanno per esempio i tappi, i bicchieri e i piatti in plastica), ma anche molecole più grandi come le poliammidi (usate per materiale elettrico, attrezzi sportivi, pellicole alimentari) e componenti di vernici. La distribuzione di tutti questi inquinanti non è omogenea, perché i rifiuti tendono ad accumularsi in prossimità delle coste, in particolare nelle aree urbanizzate, e dei fiumi, e lungo le rotte di navigazione commerciale. Uno studio pubblicato su Nature ha dimostrato per esempio che, a livello globale, ogni anno tra l’l,15 e i 2,41 milioni di tonnellate di plastica vengono depositati in mare dai fiumi. Con quali conseguenze? I rifiuti galleggianti mettono a repentaglio la vita degli animali: uccelli, rettili e mammiferi marini. Possono intrappolarli, ferirli e, se ingeriti, causare problemi gastrointestinali, avvelenamento, soffocamento, e a volte possono essere fatali.
A quanto pare, i volatili scambiano i detriti per cibo perché ingannati dall’odore. In pratica, a lungo andare sulla plastica dispersa in mare si deposita una sostanza chimica (il dimetil solfuro) rilasciata da alcune alghe microscopiche presenti nell’acqua marina, e così scatta l’inganno olfattivo.
FINO IN TAVOLA. Le microplastiche invece non causano soffocamento, ma non sono innocue. Anche perché molti dei polimeri di cui è costituita la plastica hanno la capacità di legarsi ad altri inquinanti presenti nell’acqua. «La balenottera comune, per esempio, è risultata contaminata in modo preoccupante dagl ftalati, i derivati più nocivi della plastica che influenzano le capacità riproduttivi interferendo con il sistema endocrino» racconta Faimali. «Le microplastiche insomma, possono compromettere li sua capacità di riprodursi».
Potrebbe accadere anche all’uomo? «A momento», spiega il ricercatore, «noi si può affermare che la microplastici (quella di dimensioni di alcuni millime tri) nei pesci e molluschi di cui ci cibiamc rappresenti un rischio per la salute urna na, perché non riesce ad attraversare h membrane biologiche ma rimane confi nata nei dotti intestinali dei pesci che 1; ingeriscono. E normalmente le interior; dei pesci vengono eliminate prima di cu cinarli. Ma i frammenti più piccoli, la cosiddetta nanoplastica, riescono a passar; da una cellula all’altra e quindi ad accumularsi anche nelle parti edibili, quelle cioè che noi mangiamo, con conseguenze che al momento non conosciamo». Soluzioni? Oltre agli organismi mangiaplastica, gli scienziati stanno lavorando anche ad altri sistemi. «La pulizia degli oceani è dietro l’angolo», annuncia Boyan Slat, il giovanissimo ideatore di The Ocean Cleanup, fondazione olandese che promette di installare entro il prossimo anno una barriera modulare di galleggianti lunga 1-2 chilometri, per catturare e rimuovere la plastica dal Great Pacific Garbage Patch, tra Hawaii e California: una delle più grandi “isole” di rifiuti. «Ne elimineremo il 50%, in cinque anni», dichiara.
CON LE RETI. Il progetto italiano Plastic Sea Sweeper, invece, consiste in un sistema di reti fisse di nylon per raccogliere la plastica alla foce dei fiumi prima che finisca nel mare. E partirà a breve il progetto europeo che prevede di sperimentare le cosiddette “sea cleaning technology”, sistemi da installare sulle navi o nei porti, per pulire il mare dalla macro e dalla microplastica. «Intanto tutti dovremmo fare un uso consapevole di questo materiale e mettere al bando nel nostro quotidiano gli oggetti usa e getta», conclude Faimali. Il mare ringrazierebbe.