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 2017  agosto 01 Martedì calendario

Enzo ’o pizzajuolo

Quando in una pizzeria del Vomero, l’arredo è contemporaneo e al posto della regolamentare foto di fine Anni ’80 con Maradona insieme al patron c’è una stampa di Citizen Kane – il film Quarto Potere di Orson Welles – sorge il sospetto che siamo fuori dai canoni, dagli stereotipi. Del resto i locali di Enzo Coccia, ’o Maestro (della Pizza Tradizionale Napoletana), si chiamano La Notizia. “Charles Foster Kane diceva che se il titolo è grande, la notizia diventa subito importante, allo stesso modo se la pizza è grande, la notizia diventa subito importante spiega con un sorriso. Uomo colto, di mondo – nel senso che invece di fare il militare a Cuneo ospita aspiranti pizzaioli dal Sudafrica al Giappone – e napoletano, ma ben poco folcloristico, Coccia è un mito per molti e uno “fissato” per altri, vista la sua monomania sul dare dignità a un prodotto del popolo, sul codificare un cibo solare per antonomasia, nato povero e fantasioso, ai limiti dell’anarchia. A proposito di Maradona, non esporrà la foto, ma quando il Prestipedatore di breriana memoria è venuto per ritirare la cittadinanza onoraria, in luglio il nostro gli ha preparato una Margherita personalizzata. Pibe fortunato, visto che già quella base è da sballo culinario.
Coccia, non rida alla domanda, ma cosa è una pizza?
Un piatto completo, sano, di qualità. Finto semplice e con profonde radici nella tradizione. E soprattutto, è il futuro della ristorazione.
Leggendolo, immaginiamo la gioia dei cuochi.
Ho tanti amici fra gli chef e lo dico pure a loro. Ma è colpa o merito della grande crisi che ha fatto aumentare il numero delle pizzerie, ormai sono 30mila circa in Italia. È cambiato tutto, i locali non sono più quelli di un tempo ma riescono comunque a dare da mangiare a un prezzo contenuto, stimolando la conviavialità. E poi, scusate: la pizza ha acquisito dignità.
Quindi i vostri concorrenti sono...
Le osterie, le trattorie che piacciono tanto a me. La fascia media della ristorazione si è estinta o manca poco, troppi costi e troppa burocrazia. La clientela dei locali top come quelli di Cracco e Bottura rappresentano lo 0.1 % di chi mangia. Ecco perché noi stiamo andando forte.
Da figlio d’arte suo padre aveva una pizzeria – ad amato-odiato maitre-à-penser della pizza tradizionale napoletana. Un percorso sorprendente.
A 32 anni, ho aperto il mio primo locale e ho deciso di andare oltre. Mi sono documentato, ho letto tantissimo e raccolto testimonianze sulla pizza, sono andato all’Università Federico II per capire i processi chimici alla base dell’impasto e della cottura: a quel punto ho pensato “Perché non tutelare un prodotto scardinano?“Così ho fondato l’Associazione Pizzaiuoli Napoletani che si è battuta per la registrazione del marchio comunitario STG (ndr. Specialità Tradizionale Garantita) presso il Ministero delle Politiche Agricole. Tra molte polemiche, la solita scissione e varie stesure, nel 2009 è arrivato anche il riconoscimento europeo: non risolve tutto, ma almeno esiste.
All’epoca, molti suoi colleglli la criticarono.
Dicevano ’a pizza è a ’pizza e noi la facciamo come vogliamo. Servono gli scienziati? Ora, non ci sono dubbi che il primo documento fosse sterile per un verso e coraggioso per un altro. Ma ci voleva una provocazione rispetto al passato. Loro sono jihadisti della pizza e non capiscono i vantaggi di una certificazione, soprattutto pensando al peso del Made in Italy nel mondo.
Non sarà che la vedono un po’ come chi si sente il numero uno e lo fa notare? Definisce i suoi locali “pizzarie” e si fa chiamare ‘pizzajuolo come si divea un tempo: sembra snobismo.
No, no. È che mi piace la storia del prodotto. Semmai quando parla Coccia viene fuori sempre un casino. Comunque, dal 2010 faccio un lavoro diverso: seguo Slow Food per la ricerca delle materie prime al top, ho scritto un trattato scientifico sulla Pizza Napoletana, insieme a due docenti universitari, dove si affronta, nel dettaglio, ogni aspetto della preparazione. È stato tradotto in inglese, per molti all’estero è un libro sacro. Del resto, nel ’97, il Wall Street Journal raccontò in prima pagina il mio sforzo per creare una vera pizza napoletana.
Scavando nel passato della pizza, quale è stata la sorpresa maggiore?
Più che sorpresa, la conferma del ruolo sociale: al di là di storie e storielle come quella sulla Regina Margherita. Nel 1807, sotto i Borboni, esisteva un vero e proprio albo con 87 pizzaioli che sfamavano il popolo mentre i “monzù“– i cuochi di origine francese – lavoravano nelle case dei ricchi e dei nobili. Ho trovato le insegne di 56 pizzerie e 17 friggitorie.
Dal popolo ai neo-ricchi: ora le pizze, comprese le sue, sono care. È corretta questa deviazione in chiave gourmet, anche se il termine non rende?
Parto da La Notizia: da noi, la Margherita costa nove euro: ma con un servizio da ristorante, in un posto moderno e curato, con una cantina seria. E le materie prime sono le migliori sulla piazza. Quanto alla deviazione, io lo vedo piti come un nuovo percorso: la pizza può restare del popolo o essere resa più ricca, ma sempre con una logica gustativa. Ammetto che quando faccio il giurato nei vari concorsi, ho visto e assaggiato parecchie schifezze.
Sembrano assemblaggi sopra una focaccia, è d’accordo?
Per carità, non voglio sentire quella parola: assemblaggio. Ogni prodotto va studiato a fondo, per capire se e come può essere abbinato al disco di pasta, in questo l’amicizia con gli chef mi è servita molto: loro hanno il gusto, il palato. E poi ti aiutano a riflettere. Sa come mi disse il grande Marchesi quindici anni fa? “Enzo, vuoi restare un manipolatore di impasti o essere un uomo di pensiero?”. In quel momento, non compresi: pure io ragionavo sul concetto ’a pizza è *a pizza... Poi mi sono messo a studiare ancora di più A proposito di studio, l’aspirante Coccia cosa deve fare?
Pulire il basilico, serve più di corsi e master. Poi dopo tre-quattro anni di lavoro, uno capisce se è il suo lavoro e chi lo guida se diventerà un grande.
Magari conquistando la stella Michelin. Per molti critici, voi pizzaioli siete fissati con questa storia. Due anni fa. ne avete persino parlato a Identità Golose come fosse il Sacro Graal.
Ha ragione: in quel preciso momento, siamo stati un po’ noiosi. Comunque, non è una fissa e non ne abbiamo bisogno per ragioni commerciali: i migliori locali in Italia vanno benissimo e hanno una redditività che i ristoranti si sognano. È che farebbe bene al movimento, darebbe un’immagine diversa come è successo per la cucina etnica. Poi ovvio che sarebbe pure una soddisfazione: quando vidi che la Michelin segnalava La Notizia, fu un piacere immenso.
E se la prendesse uno dei grandi pizzaioli veneti? O un romano? Sarebbe una beffa per la scuola napoletana che in passato ha polemizzato con gli “stranieri”. Si è sfiorato il razzismo.
lo dico che Simone Padoan (ndr, patron de l Tigli di San Bonifacio) ha aperto una nuova strada, insieme ad altri colleghi. Le polemiche sono nate perché alcuni napoletani hanno esagerato con i toni e tanti altri hanno interpretato male la visione, che non contrasta con la nostra. È diversa. Lui fa grandi pizze, come Gabriele
Bonci a Roma e altri ancora. Poi non scordiamoci che per i media, un bello scontro Nord-Sud è l’ideale. La realtà era meno drammatica.
Però siete tremendi. Lo scorso anno, non solo avete contestato che per la più famosa guida del cibo. Franco Pepe fosse il numero uno. ma lo boicottaste ala premiazione. In pratica, chi tocca la pizza muore e il fatto che Pepe sia di Caiazzo e non di Napoli...
Una cosa alla volta. Franco lo conosco da 25 anni e ci siamo frequentati con le famiglie. Otto anni fa l’ho introdotto io nel circuito dei congressi e delle manifestazioni: è cresciuto, ora è molto bravo. Lui dice che la mia pizza non è quella napoletana, per me ha invece le radici della storia ma libero di pensarla così. Quanto al fatto che lui sia stato scelto come miglior pizzaiolo al mondo, a molti napoletani non è andata giù perché Daniel Young – il curatore – si è sempre appoggiato su Napoli e i napoletani. Che devo dire? ’A vita continua.
Perchè non apre un locale a Milano? Sarebbe un grande successo.
Dovrei seguirla direttamente o avere delle persone che pensano al 90% nel mio modo, pronte a prendere il mio posto. Le pizze risultano diverse da un locale all’altro già nella stessa città, figuriamoci a 800 km di distanza: è un prodotto artigianale, fatto da uomini e sino a quando non troverò quelli giusti, eviterò di salire al Nord, rischiando figuracce.
Coccia, ma proprio lei che sostiene la tecnicità della pizza!
Non ci siamo capiti, guagliò. La scienza dice che puoi realizzare il medesimo impasto in Alaska come in Australia, che l’olio va messo a crudo e che la mozzarella di bufala fonde a una certa temperatura. Quindi, come vede, sono tutte sciocchezze quelle sull’aria buona o cattiva, sull’umidità superiore in ceni posti... Sono errori nella preparazione dell’impasto o nella cotture, basta seguire le regole tecniche. Ma poi ci vuole il pizzaiolo, la sua manualità, l’esperienza, la passione che mette ogni giorno. Ecco perché il confine tra una grande pizza e una buona resta sottilissimo.
Sempre in prima pagina, o’ maestro.
Lo dicono gli altri che sono o’ maestro. E non mi sento manco l’artista. I musicisti, gli scultori, i pittori lo sono. Mi considero un artigiano al servizio di una delle attività più antiche di Napoli, un pizzajuolo. Perà con un’identità, un cervello e un’anima.