La Stampa, 1 settembre 2017
Sulla nave dei pescatori di Mazara: «Macché amici, gli arabi ci sparano»
Controlla le reti, il comandante Mimmo Asaro, getta uno sguardo alla statuetta di Santa Lucia che troneggia accanto al timone, accende il radar. «Ormai non lo spegniamo mai, giorno e notte, così vediamo subito se c’è qualcuno che si avvicina. E non dormiamo più, sempre qualcuno sveglio a turno».
Il peschereccio «Giulia P.G. II», trentatré metri di legno, fatica e speranza di fare buona pesca, scioglie le gomene, si allontana dal molo, prende il largo su un mare liscio come l’olio. Destinazione Pozzallo, dove si fa carburante, poi via, verso le coste della Libia, due giorni e mezzo di navigazione prima di gettare le reti in cerca di gambero rosso, l’oro del mare, il tesoro che nuota a seicento metri di profondità.
Equipaggi «misti»
Con il comandante, quattro tunisini e tre siciliani, come nella consuetudine degli equipaggi «misti» di Mazara del Vallo, la città multietnica affacciata sul Canale di Sicilia, la marineria più grande del Mediterraneo. Tunisino è il nostromo Hamza Rachid, tunisini i «giovanotti di macchina», i fratelli Kesraoui e Mhosen Bennour, tunisino il marinaio Bouckam Kacem. E tunisini, o libici, sono i nemici, i puntini che potrebbero apparire sul radar, quelli che sparano, quelli che sequestrano, quelli che mettono in prigione accusando i pescatori siciliani di gettare le reti in acque africane.
La «guerra del pesce»
Storia antica, antica quanto il Mediterraneo di corsari e di arrembaggi, questa «guerra del pesce», tornata a bruciare sulla carne viva dei pescatori adesso che due barche sono sfuggite per un soffio al sequestro. Il 2 agosto è toccato all’«Anna Madre», due settimane dopo al peschereccio «Aliseo», inseguiti da motovedette tunisine e salvati dalla Marina militare italiana. Oggi è un giorno speciale a Mazara, con l’europarlamentare del Pd Cecile Kyenge, l’ex ministro dell’Integrazione nel governo Letta, venuta a portare ai pescatori il Premio «Cittadino europeo» per il soccorso ai migranti in mare, una candidatura portata avanti da lei e dalla collega siciliana Michela Giuffrida.
Ma la tensione a bordo non si stempera. «Mi fa ridere che siamo diventati amici della Libia per controllare i barconi dei clandestini. Questi accordi sul mare non valgono», dice Asaro, 53 anni, mentre la costa si allontana, la cupola della cattedrale normanna del Santissimo Salvatore diventa sempre più piccola e la luce del pomeriggio inonda la kasbah della città, con i vicoli abitati da seimila nordafricani che si sono insediati qui nell’ultimo secolo. Si va in mare per quaranta giorni: tanto dura una battuta di pesca. Poi dieci giorni a terra, poi di nuovo in mare.
«Nel 1996 – continua il comandante – mi hanno sparato per cinque ore finché mi hanno preso, mi hanno confiscato il peschereccio e mi hanno sbattuto per sei mesi in una prigione di Misurata. Poi mi hanno graziato, ma il peschereccio è rimasto lì per sempre. Mio padre Vito, quando mi hanno liberato mi ha detto: era meglio che restavi tu e tornava il peschereccio. Mio padre è morto dodici anni dopo, ma si è ammalato quel giorno».
A bordo si prepara la pesca
Intorno si preparano le reti, dieci reti lunghe sessanta metri ciascuna con il loro corredo di cavi d’acciaio, «calamenti» e divergenti, le attrezzature per portarle giù, tenerla aperta e impedire che imbarchi fango. Sono pronte la cella refrigerante a 40 gradi sotto zero dove ci si precipita a collocare le cassette di gambero appena pescato, e quella di mantenimento a meno 20 gradi. Così il pesce resta come fresco. In dispensa pasta, carne, fagioli, uova frutta, «la domenica si mangia pasta al forno, non ci facciamo mancare niente», dice il nostromo con un sorriso. «Nel 2010 – racconta ancora Mimmo Asaro mostrando un buco nella chiglia – mi hanno sparato 96 colpi di mitragliatrice ma sono riuscito a scappare, due anni dopo mi hanno preso di nuovo, altri cinquanta giorni di prigione in Libia. Come possiamo credere che adesso siamo diventati amici? Noi ci fermiamo a trenta miglia dalla costa, il limite sarebbe dodici, ma loro dicono che è tutto loro il mare, tutto, anche se siamo noi a scoprire i posti migliori e loro ce li rubano».
Da quanto è gonfia la rete dipende il guadagno dei pescatori. Tolte le spese, il 51 per cento va all’armatore e il 49 si divide tra l’equipaggio. Si arriva a Pozzallo, mentre si prepara la rotta per l’Africa. C’è chi fa il segno della Croce e chi prega verso la Mecca. Spinge i motori il comandante, diventa un punto sull’orizzonte. «Si sa quando si esce, non si sa quando si torna. E se si torna».