la Repubblica, 31 agosto 2017
L’amaca
Si capisce che la sete di Roma faccia scalpore, perché è la capitale e perché è una città che appartiene al mondo. Ma altri italiani, da molti mesi, specie su al Nord, aspettano le autobotti (e le pagano) per rifornire acquedotti e pozzi disseccati; e vegliano su laghi ridotti a scodelle di argilla crepata, e fiumi morenti, e maledicono le belle signorine del meteo che annunciano imperterrite, inconsapevoli, “un’altra magnifica giornata di sole”.
Si deve dunque presumere che quest’altra Italia, assetata da molto tempo prima che la sete finisse in prima pagina, non abbia voce? Forse sì, è proprio questo che si deve desumere. Che nella famosa crisi dei corpi intermedi anche quello più intermedio di tutti – la politica – sia incapace di dare rappresentanza all’Italia così com’è, con l’Appennino (cinquanta per cento del territorio nazionale…) che per fare parlare di sé deve aspettare terremoti o valanghe o altre catastrofi. La politica dovrebbe funzionare come un sistema idrico: arrivare ovunque, capillarmente, non ristagnare a Roma. L’Appennino negletto (Bracciano inclusa) è niente altro che l’Italia negletta. Paolo Rumiz ne scrive da anni, inutilmente. Io pure. Tra i corpi intermedi in crisi si aggiunga, dunque, il giornalismo.