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 2017  agosto 31 Giovedì calendario

Epidemie e mancanza di fondi. Strage all’ospedale dei bambini. In India 217 decessi in un mese, per l’encefalite ma anche perché è finito l’ossigeno

«Arrivano gravissimi, non riusciamo a salvarli». Si dispera il professore P.K. Singh, neodirettore dell’ospedale Baba Raghav Das, di Gorakhpur, nello Stato indiano dell’Uttar Pradesh. Il monsone, le inondazioni, le malattie formano un ciclo che nel sud asiatico si ripete ogni anno e che continua a uccidere i deboli e gli indifesi. Il bilancio è devastante: 1.200 vittime in India, Nepal e Bangladesh da giugno ad oggi. Particolarmente drammatiche sono le notizie che arrivano dall’ospedale di Singh, dove nel mese di agosto sono morti 217 bambini, molti neonati. Una strage inaccettabile, che ha trascinato in strada, al fianco di genitori disperati, gran parte della popolazione della zona. Perché, si chiedono, il governo, le autorità, le strutture continuano a essere colti impreparati dall’arrivo stagionale delle piogge?
A rendere la situazione ulteriormente sconcertante è che l’ospedale in questione è a corto di fondi. Sui decessi è calato il sospetto di malasanità, anche perché è circolata voce che per via dei conti in rosso sia stata bloccata, all’inizio di agosto, la distribuzione di bombole di ossigeno. Possibile che la strage sia stata aggravata dalla mancanza di macchinari e medicinali? Il predecessore di Singh, il professor Rajeev Mishra, si è dimesso dopo essere stato sospeso assieme alla moglie, la dottoressa Purnima Shukla.
Allontanare due medici non basta. Stando all’inchiesta esterna avviata sui decessi nel reparto pediatrico, se una cattiva gestione finanziaria c’è stata, non è la causa dell’eccidio. «Questi bambini muoiono per complicazioni mediche, non per negligenza», sottolinea Singh. In particolare è l’encefalite a colpire i bambini, un’infiammazione del cervello che inizialmente presenta sintomi simili all’influenza ma che senza una diagnosi tempestiva può essere fatale. Negli ultimi sette anni ha ucciso 4.000 bambini solo nell’Uttar Pradesh, quinto Stato indiano per estensione e primo per popolazione. «Riceviamo i casi più gravi da altri ospedali, spesso vediamo arrivare genitori con in braccio bambini che sono già in fin di vita». «Serve più preparazione nelle zone rurali – ha detto alla Bbc K.P. Kushwaha, un pediatra che ha lavorato presso il Baba Raghav Das —. Se i medici generalisti fossero in grado di diagnosticare l’encefalite prima, questi bambini avrebbero qualche speranza in più».
Tra le 60 giovanissime vittime dell’ospedale degli ultimi tre giorni, però, l’encefalite è responsabile solo di sette decessi, triste dimostrazione che con il monsone sono tante le malattie contagiose che si trasmettono in fretta. Il bilancio, ammette Singh, è destinato a salire. È difficile, di fronte a numeri devastanti, non pensare al fenomeno che nel mondo anglosassone ha il nome di compassion gap, ovvero dislivello di compassione: la tragedia umanitaria, il disastro naturale o l’atto di terrorismo che colpisce l’Europa o gli Usa ha più eco. In India, in Pakistan, in Medio Oriente, in Africa si muore in silenzio.