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 2017  agosto 31 Giovedì calendario

Tassare le macchine non fa bene agli umani

Una vera tassa sui robot ancora non è, però va in quel senso: nella Corea del Sud, Paese all’avanguardia mondiale dell’automazione, il presidente Moon Jae-in (centro-sinistra) progetta un calo degli incentivi a chi installa macchinari. Ma lì non è la disoccupazione – appena al 3,6% – il problema; la gente è scontenta casomai per le disuguaglianze e la scarsa mobilità sociale.
All’idea di tassare i robot, lanciata da Bill Gates, quasi tutti gli economisti restano contrari. Anche perché i dati non mostrano, per ora, alcun processo travolgente; tanto meno da noi, dove la Banca d’Italia anzi imputa agli industriali pigrizia nell’adozione delle nuove tecnologie. Negli Usa parla di «allarmismo infondato» proprio l’Itif, fondazione che studia e promuove l’informatica.
Sessant’anni fa negli Stati Uniti c’erano 110.000 persone impiegate a manovrare gli ascensori nei grattacieli, e 25.000 addetti ai proiettori dei cinema. Sono solo due piccoli esempi, fonte Itif, dei posti di lavoro che la tecnologia distrugge; in entrambi i casi non si ricordano significative conseguenze, perché di occasioni di impiego nel frattempo se ne creavano molte di più altrove.
Però oggi la paura che i robot ci tolgano il lavoro impazza. Forse perché non sappiamo ancora dove colpiranno; perché svolgono compiti che fino a ieri ci pareva impossibile automatizzare; perché si teme che il processo sia troppo rapido per adattarvisi. O piuttosto, pensandoci bene, perché oggi è molto più forte il rischio che chi cambia occupazione debba accontentarsi di una paga più bassa.
L’esempio storico confortante che viene spesso citato quanto a tecnologie è quello della prima rivoluzione industriale: nel corso del XIX secolo la produttività delle industrie tessili aumentò di 50 volte, ma dato che ai prezzi così ridotti molta più gente poteva permettersi la spesa, la vendita di capi di vestiario crebbe in proporzione ancora superiore, e le fabbriche anzi si ingrandirono.
Oggi è difficile che un simile caso si ripeta. I posti di lavoro che la tecnologia distrugge non sono più solo faticosi e umili, sono (lo mostrano analisi Ocse) di categoria media, decentemente retribuiti seppur non entusiasmanti e ripetitivi. Per come stanno le cose nei Paesi avanzati, essere sostituito da un computer può implicare una caduta nella scala sociale.
Certo gli incentivi ad applicare l’informatica sono più forti dove il lavoro manca. Il trattore robot si sperimenta in Giappone, dove nessuno vuole più coltivare i campi; in Germania si realizzano macchine mobili capaci di individuare malattie ed esigenze delle piante. In Gran Bretagna, i fautori della Brexit contano su queste novità per proporre una agricoltura senza immigrati.
Secondo l’economista turco-americano Daron Acemoglu, negli Usa i posti di lavoro industriali distrutti dalle nuove tecnologie sono stati 670.000 dal 1990 al 2007. Di classe operaia secondo gli schemi del XX secolo ce ne sarà sempre meno. Tuttavia altri settori all’elettronica restano refrattari. Proprio negli Usa, ha detto sabato al convegno di Jackson Hole Timothy Kehoe (università del Minnesota), negli ultimi 50 anni la produttività dell’edilizia è addirittura scesa.
Altri impieghi si creeranno al posto di quelli distrutti, sostiene Tyler Cowen, uno dei più brillanti economisti neoliberisti, senza però nessun ottimismo di maniera: dove occorrono relazioni umane, tra aziende e clienti per esempio, insomma nel «marketing»; con rischio di sprechi in società troppo ricche con posizioni dominanti sul mercato, o perfino di frodi come nella finanza.
Di sicuro è stato il progresso tecnologico a mutare i rapporti di forza tra imprese e lavoratori, frenando in tutto il mondo i salari. Ma proprio questa concentrazione di ricchezza in poche mani, ha avvertito a Jackson Hole l’altro giorno il banchiere centrale di Hong Kong Norman Chan, frena ora la crescita. Ovvero rende meno convenienti i robot: forse la tecnologia si ritorce contro sé stessa.