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 2017  agosto 30 Mercoledì calendario

Attilio Manca non fu ucciso. Basta teorie del complotto

Bisogna ammetterlo: Antonio Ingroia è sempre coerente, né ha mutato le sue convinzioni quando, dopo essere stato pm per molto tempo, ha scelto di fare l’avvocato. Basta poco per sintetizzare il suo credo: i magistrati che non la pensano come lui sono all’evidenza genuflessi di fronte all’arroganza del potere, usano passi felpati nelle loro inchieste, rinunciano alla ricerca della verità e fanno in tal modo carriera. I disobbedienti, invece, vengono puniti. Gli ultimi magistrati bollati di viltà (“servono giudici più coraggiosi”) sono il procuratore della Repubblica e il giudice di Viterbo che si sono occupati della morte dell’urologo siciliano Attilio Manca, il cui corpo fu trovato il 12 aprile 2004 nella sua casa di Viterbo. Cerchiamo di capire dove, secondo Ingroia, essi avrebbero sbagliato per mancanza di coraggio, dando però puntualmente conto, per ciascun “addebito”, della verità risultante dagli atti del processo e dalla sentenza.
Il corpo del dr. Manca venne trovato con “volto tumefatto, setto nasale deviato e due buchi nel braccio sinistro”. Si tratterebbe, afferma Ingroia, di “segni evidenti di violenta aggressione” e della prova che qualcuno iniettò forzatamente sostanze letali al Manca che, essendo mancino puro, avrebbe potuto inocularsi stupefacente solo sul braccio destro. Dagli atti, però, risulta altro: le consulenze medico-legali attestano con certezza che Manca non subì alcuna violenza e che i predetti segni (“macchie”, non tumefazioni) derivavano dalla posizione in cui la salma fu rinvenuta, riversa sul letto con viso schiacciato sul materasso. Il naso non presentava neppure lesioni della cartilagine e il sangue presente venne qualificato “riscontro pressoché costante” nei casi di morte per assunzione di eroina. Quanto alla collocazione dei due buchi, alcuni testimoni consumatori di stupefacenti smentiscono le tesi del “nostro”, ricordando come il medico si iniettasse stupefacente anche con la mano destra. D’altronde, osserva il pm, Manca era chirurgo ambidestro e usava entrambi gli arti superiori per operare. Ma alcuni colleghi dell’ospedale in cui Manca lavorava – si dice – hanno dichiarato di non avere mai saputo che il dottore assumeva droghe. Vero, ma altri tre suoi amici, con lui da anni assuntori di droga, lo hanno confermato indicando la donna che gli forniva l’eroina, cui vennero sequestrate siringhe di insulina uguali a quelle trovate a casa del Manca. Una consulenza tricologica, infine, ha consentito di affermare che l’urologo era assuntore non occasionale di eroina, “unica responsabile del fatale evento”.
Alla luce di queste e altre circostanze, il Tribunale di Viterbo, che aveva già dichiarato prescritto il reato di morte quale conseguenza non voluta della cessione di eroina volontariamente assunta dalla vittima, condannava la donna per lo spaccio ed escludeva il fondamento di qualsiasi diversa ipotesi sulle cause del decesso.
Ma Ingroia (e non solo lui) non ci sta e parla di omicidio avvenuto ad opera di “uomini di Cosa Nostra e dei servizi deviati”, dunque “un omicidio di mafia e di Stato, legato alla latitanza di Provenzano” ed all’intervento alla prostata cui quest’ultimo sarebbe stato sottoposto a Marsiglia a opera del dr. Manca. Tesi basata – ci spiega – su dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Ma ancora una volta si ignora quello che conta: i collaboratori (che hanno genericamente riferito notizie apprese di seconda mano) sono risultati sin qui inattendibili e le approfondite indagini condotte prima dai pm di Palermo e ora da quelli di Roma (anch’essi criticati) non hanno consentito di acquisire il benchè minimo riscontro alla presenza del Manca a Marsiglia, del tutto negata dai medici francesi sentiti come testi. Eppure, insiste Ingroia, si tratterebbe dell’omicidio di un “testimone di un pezzo del mosaico dell’indicibile accordo tra mafia e Stato, responsabili della copertura di Provenzano… certificare questa verità in un’aula giudiziaria non aiuterebbe certo a fare carriera ed anzi porterebbe solo rogne. Meglio evitare”. Scontate le accuse di “omissione investigative e depistaggi”. Di qui l’appello finale che l’avv./ex pm Ingroia rivolge ai lettori de Il Fatto: “Ci aiutino a impedire che si metta una definitiva pietra tombale sull’omicidio Manca… perché le prove che non fu una tragedia di droga ci sono tutte”: ma la realtà, come s’è visto, è affatto diversa! Ecco allora che il personale appello che tutti dovremmo sottoscrivere è un altro: basta con il consueto repertorio di tesi complottistiche, strumentalmente utilizzate a sostegno del proprio operato dinanzi alla pubblica opinione, ma che in realtà testimoniano incapacità di accettare la giustizia come bene indisponibile (che non viene servita “alla carta”) e la verità processuale come risultante dalle aule giudiziarie.
Basta con l’autoproclamarsi unici difensori del bene e della verità contro il male e gli inconfessabili interessi dei “poteri forti” o dei “mandanti esterni” di turno. Si lascino lavorare i magistrati e, se si vuole, non si risparmi loro alcuna critica motivata e seria. Ma l’offesa e la delegittimazione, così come le sentenze e i processi fondati su indimostrati pur se suggestivi teoremi, sono altra cosa e non appartengono alla cultura giuridica sia dei giudici, che dei pm e degli avvocati.
* Procuratore capo di Torino