il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2017
Una vita di male e di (Carmelo) Bene. Il genio avrebbe 80 anni. Il 1° settembre 1937 nasceva l’attore e fabbro di poesia
Non c’è più Bene e saranno 80 gli anni – giorno primo settembre prossimo – dalla nascita a Campi Salentina nel 1937 del biasimevole, fascinoso e assoluto unico Carmelo, attore e fabbro di vera poesia. Uno che sa stare in scena senza mai esserci. Chevalier des lettres et des arts di Francia, morto a Roma il 16 marzo 2002 all’età di 65 anni con 325 notti trascorse nei commissariati di zona ovunque si trovasse col suo abito gessato, i rotoli di banconote nel taschino e col coltello proprio del Sud del Sud dei santi, Carmelo Bene è – per dirla con Giancarlo Dotto, suo gemello in tutt’uno – “la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza mai avere avuto”.
Pinocchio più dello stesso burattino di legno di Carlo Collodi, Bene – 120 Gitanes al giorno – non trova modo di andare in scena con la fatina Brigitte Bardot e Totò, nel ruolo di Mastro Geppetto. Fatto è che quando il cast è già chiuso muore il principe De Curtis e la produzione rinuncia al progetto di Nelo Risi.
Don Chisciotte più dello stesso mancego, Carmelo si lascia alle spalle i frammenti preziosi dei provini di un film. Nella celluloide, come nel magnificare di un miracolo voluto dalla Rai di Ettore Bernabei, accanto a lui – cavalcante il ciuco di Sancho Panza – c’è Peppino de Filippo. Anche questa pellicola non trova poi luce, ma la scenografia è disegnata apposta per loro due da Salvador Dalì.
Carmelo Bene fa pesca a strascico, infatti, tra ingegni suoi parigrado. Albert Camus in persona, nel 1959, gli affida il suo Caligola in scena. Regia di Alberto Ruggiero. Alla prima de Nostra Signora dei Turchi – nel 1973, a Roma – seduto in platea, rapito di commozione, c’è Franco Franchi.
Ha ancora 22 anni Bene e magro com’è, spiritato e “venuto dalle Puglie per inventare un suo personalissimo teatro” – così detta lo speaker di Avvenimenti 30, una trasmissione tivù – crea un altrove in sé, ancor più personalissimo: un’immedesimazione in Giuseppe da Copertino. Il santo del Sud dei santi la cui prima qualità è vedere in alto, ancora più in alto, una pasqua di fiori di pesco, è il vero alter ego di Bene, il più formativo tra i teologi, l’unico in grado di smarrirsi con la bocca aperta, da illetterato e idiota nel Dio del latino e greco, nell’apoteosi del depensamento.
Come il santo degli sciocchi, degli alunni ciucci, dei privi d’ogni lume il canto di Carmelo – nel rifiuto della storiuccia del quotidiano conflittuale – è vox sola. Casse di liquore ai piedi – l’uno di fronte all’altro, stessa dotazione alcolica, a Parigi – con l’autore de Le leggi dell’Ospitalità, ossia Pierre Klossowski, Carmelo Bene riesce a sciorinare l’intero mondo di volontà e rappresentazione di Arthur Schopenauer.
Abita la battaglia, Bene. L’espressione che più lo riguarda, nel solco di Giuseppe Verdi, tra i feuilletons del romanticamente grandioso. E in tutto ciò, Carmelo, s’abbandona – “con Klossowski parlando di Dio è certamente una gioia insostituibile” – quando i suoi contemporanei, nei dipartimenti di filosofia o, peggio, nei retropalco dei Festival dell’Unità, si danno allo scervellamento stitico discorrendo al più di George Lukacs o delle Coop. Ben più che attore, macchina attoriale, Bene ingurgita luce studiando il Trattato degli Angeli di San Tommaso, il libro IX in particolare, e siccome l’occhio è l’ascolto, tutta la sua dissipata esistenza d’artista diventa opera omnia.
Un’autografia di ritratto, la vita del Carmelo. Ed è una felice intuizione editoriale di Elisabetta Sgarbi quella di farne, di Bene ancora in vita, un classico nel catalogo Bompiani.
Uno così inaudito, nell’Italietta del provincialismo, è l’inedito assoluto. Nella sciatteria balorda dove nessuno più sa di nessuno, i tomi delle biblioteche sfoggiano in maggior parte “un’assai bella e disinvolta assenza dannunziana” ma, spiega Carmelo Bene, “se il guardo a caso inciampa su d’un foglio del D’Annunzio, crocifisso sul martire di sua stessa lingua madre, oh, se accade, è un sollievo. Nei suoi rovi aggrovigliati trovi sempre, se pur tra i rantoli, disdetto quanto vuoi, l’ultimo dire.”
Ci si astiene dal leggere contemporaneo, come dallo scrivere. Nella Vie d’(H)eros(es), l’autobiografia, così sentenzia Bene: “In questa nostra disimperata decadenza provincial-cinecittadinesca fu destino comune a quei diversi (tre o quattro) sacrificare fuori dalle righe”. C’è ogni Bene, grazie, giusto a fare il verso al suo birichino sberleffo di supremo guitto capace, come lo è, di entrare nella pace post-prandiale degli italiani e impossessarsi di Domenica In. Che puntata quella puntata con Corrado che lo accoglie – c’è anche Lidia Mancinelli con lui, e la Banda Musicale di Campi Salentina – e Bene canta sulle note di quegli ottoni senza tema di dismettere la gravitas, anzi, col fraseggio tutto di sottolineature sub specie spectaculi.
La prova dell’alto/basso tutta rivolta, dunque, verso l’alto/alto. La prova di qualità cui si sottopone la Rai mandando in onda, nel 1974, Quattro modi di morire in versi: Majakowski, Blok, Esenin, Pasternak, con Carmelo Bene in combutta con Roberto Lerici e Angelo Maria Ripellino, si rivela un successo anche di ascolti oltre che di critica. È necessario svanire nel dire, “purché si dia il miracolo”. Come nella Lectura Dantis preparata da Rino Maenza alla Torre degli Asinelli, il 31 luglio 1981, nel commemorare la strage della Stazione di Bologna; come nella celebre puntata di Mixer Cultura del 15 febbraio 1988, con Arnaldo Bagnasco al timone; o come nell’uno contro tutti al Maurizio Costanzo Show dove Carmelo appare a madonna Televisione e la folla, in cambio, offre una certa attenzione, appunto, religiosa perché c’è ogni bene in Bene.
Nel Bene che se ne va c’è ogni Bene. Come quando a madonna vita par che dica ciò che, tra uno sbadiglio e l’altro, nel fumigante camerino, guatando sullo specchio di Riccardo III disse: “Vede, mia cara, forse, un giorno, lei potrà raccontare d’avermi conosciuto, aver parlato con me; ma che racconto io, già, che racconto?”.