Il Sole 24 Ore, 30 agosto 2017
Se Pechino non vuole fermare Pyongyang
Da anni gli americani fraintendono la minaccia nucleare nordcoreana, e sbagliano approccio. Fraintendono anche il problema dei disavanzi commerciali bilaterali con la Cina, sopravvalutandone l’importanza. E con Trump che minaccia di innalzare nuove barriere commerciali contro la Cina (il Paese da cui gli Stati Uniti non possono prescindere per contribuire a tenere a freno una Corea del Nord sempre più pericolosa e concreta nelle sue minacce), le due questioni sono diventate strettamente collegate.
La posta in palio naturalmente è molto più alta nel caso della Corea del Nord, dopo che il missile di ieri ha aggravato tensioni già alte. Se Washington e Pyongyang dovessero dare il via a un confronto militare, c’è il rischio concreto che venga utilizzata l’atomica. E anche una guerra “solo” convenzionale probabilmente sarebbe catastrofica.
I commerci hanno grande importanza nella sfida nucleare nord coreana, perché l’imposizione di severe sanzioni economiche da parte della Cina (incluso, forse, lo stop alle forniture di petrolio) probabilmente rappresentano la possibilità migliore, per il pianeta, di fermare il programma nucleare di Pyongyang (in cambio di certe garanzie di sicurezza da parte degli Stati Uniti). Trump forse questo lo capisce. Ma sembra convinto di poter usare gli scambi commerciali tra Usa e Cina come moneta di scambio per assicurarsi l’aiuto di Pechino con la Corea del Nord. Questo è l’approccio sbagliato.
Chi giustifica Trump, di solito richiama l’attenzione sul fatto che viene dal mondo degli affari, e questo farebbe di lui l’uomo di cui gli Stati Uniti hanno bisogno, uno che sa stringere accordi. In realtà, il suo comportamento dimostra che disdegna proprio alcuni dei requisiti più elementari per il buon esito di una trattativa.
Nell’ottica cinese, una Corea del Nord con l’atomica non è auspicabile, ma è comunque meno problematica di un potenziale collasso dell’ordine vigente nel Paese, che potrebbe scatenare un afflusso di profughi in Cina e portare le truppe americane più vicine al confine. In questo contesto, le sporadiche minacce commerciali Usa non sono il modo giusto per convincere la Cina a esercitare pressioni sul suo turbolento alleato.
Quello che dovrebbero fare Stati Uniti e Corea del Sud, invece, è promettere a Pechino che nel caso in cui le sanzioni sostenute dalla Cina dovessero provocare il tracollo del regime nord coreano, la Cina non si troverebbe di fronte truppe americane a nord del 38° parallelo, o una Corea unita provvista di armi atomiche. Più a breve termine, Washington e Seul dovrebbero offrirsi di sospendere il dispiegamento del sistema antimissile Thaad in Corea del Sud, se la Cina adotterà e applicherà ulteriori sanzioni contro Pyongyang.
Ma da parte del presidente Usa serve credibilità per far funzionare questa strategia (o qualsiasi altra strategia). Sfortunatamente, le dichiarazioni di Trump (sul passato, sul presente o sul futuro) spesso sono scollegate dalla realtà. Sulla questione del nucleare nordcoreano, ha mostrato una mancanza di coerenza, credibilità e capacità di dar seguito alle sue parole che ha dell’incredibile.
Già a gennaio, aveva twittato che lo sviluppo da parte della Corea del Nord di un’arma nucleare capace di raggiungere parti del territorio statunitense «non avverrà». A luglio, la Corea del Nord ha sperimentato un missile balistico intercontinentale in grado di raggiungere gli Stati Uniti, e si ritiene che il Paese possieda già la capacità di produrre una testata nucleare miniaturizzata, in grado di essere montata su un missile intercontinentale.
Quando, all’inizio del mese, Trump ha detto che qualsiasi minaccia da parte di Pyongyang «troverà in risposta fuoco e furore come il mondo non ha mai visto», il leader nordcoreano Kim Jong-un ha risposto minacciando di attaccare Guam. Invece di rispondere con fuoco e furore, Trump ha ribadito che se Kim «pronuncia una minaccia sotto forma di una minaccia aperta se ne pentirà amaramente. E se ne pentirà presto». È evidente che queste dichiarazioni non sono né credibili né accurate.
La stessa inaffidabilità e incostanza Trump l’ha dimostrata nei riguardi della Cina. A dicembre, quando ancora non era entrato in carica, aveva contestato la politica di «una sola Cina» seguita dai suoi predecessori, sia democratici che repubblicani. O non sapeva che su Taiwan la Cina è disposta a scendere in guerra ben più degli Stati Uniti, oppure stava dando prova della sua tipica miopia. In ogni caso, il 9 febbraio ha dovuto rovesciare la sua posizione, perdendo la faccia dopo appena due settimane dal suo insediamento e stabilendo un precedente negativo per le sue future negoziazioni con i cinesi, strategicamente accorti.
Il presidente americano ha fatto marcia indietro anche sulla sua promessa, ripetuta più volte, di accusare la Cina di manipolazione del tasso di cambio non appena messo piede alla Casa Bianca. Era una minaccia scriteriata fin dal principio, anche e soprattutto perché, se le autorità cinesi nel 2015-2016 avessero smesso di intervenire sui mercati dei cambi, il risultato sarebbe stato un renminbi più debole, non il contrario.
Ormai, il presidente cinese Xi Jinping, al pari della maggior parte dei leader mondiali, ha imparato a prendere cum grano salis gli ammonimenti di Trump. Le dichiarazioni del presidente Usa che lasciavano intendere una mancanza di lealtà verso gli alleati dell’America (ha impiegato mesi per affermare il suo sostegno all’articolo 5 del Trattato nordatlantico, la clausola di difesa collettiva che rappresenta il fondamento della Nato) hanno reso perfino i partner più stretti dell’America reticenti a stringere accordi con la sua amministrazione.
La Casa Bianca continua a portare avanti misure di politica commerciale aggressive nei confronti della Cina, che solo in pochi casi hanno qualche fondamento (mentre gli sforzi per far rispettare i diritti di proprietà intellettuale hanno una base reale, il tentativo di bloccare le importazioni di acciaio usando l’esenzione per motivi di sicurezza nazionale è farsesco). Ma queste iniziative porteranno benefici scarsi o addirittura nulli per la bilancia commerciale, la crescita del reddito reale e l’occupazione degli Stati Uniti. E di certo non convinceranno la Cina a impegnarsi per contenere la minaccia nucleare nordcoreana.
* Jeffrey Frankel insegna formazione del capitale e crescita all’Università di Harvard
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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