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 2017  agosto 30 Mercoledì calendario

Tim e gli altri del super bonus

Era solo il 2008, appena nove anni fa sul calendario appeso al muro ma un’era geologica se guardiamo alle trasformazioni del capitalismo, quando il mondo si scandalizzava di fronte ai bonus dell’uomo che aveva portato nel baratro Lehman Brothers: Richard Fuld, 484 milioni di dollari di premi in 8 anni, di cui 22 nel 2007 mentre la gente si preparava a perdere il posto uscendo con degli scatoloni che avrebbero fatto la storia.
Oggi il chief executive officer di una delle più importanti banche d’affari di Wall Street, Lloyd Blankfein della Goldman Sachs, si è dovuto «accontentare» di 22 milioni, compresi i bonus in azioni.
Il mondo è cambiato. Quasi irreversibilmente. Quasi per tutti. Ma non per loro: i super-manager del mondo tecnologico. Il denaro è diventato una commodity. Il silicio no. I big data meno che mai. Tim Cook, il ceo di Apple, ha ricevuto 560 mila azioni della società che in Borsa corrispondono a 89 milioni di dollari. Si tratta in parte di una sorta di polizza assicurativa per la fedeltà: quando nel 2011 morì Steve Jobs e Cook prese definitivamente il timone della Mela morsicata ottenne, oltre a 378 milioni, anche un pacchetto che avrebbe potuto vendere solo a patto di rimanere almeno cinque anni in azienda. I cinque anni sono passati e la carta si è trasformata per Cook in denaro. L’illusione e diventata realtà.
L’uso di incentivi galattici non è un’anomalia nel mondo delle società quotate. Le stock option erano state introdotte già negli anni Ottanta come modello virtuoso per dare vita a un legame tra valore creato per l’azienda e compensi (oltre che per «gabbare» il fisco, almeno con le vecchie regole ormai superate). Lo stesso Jobs al suo rientro alla Apple alla fine degli anni Novanta chiese solo un dollaro simbolico come stipendio. Tutto il resto arrivò in azioni e «piccole» facilitazioni come l’aereo aziendale. Ma anche nel mondo della finanza si discute sulla loro reale efficacia tanto che nel caso di Blankfein la «riduzione» rispetto ai compensi faraonici del passato è legata proprio alla scomparsa degli incentivi di lungo termine. La teoria è stata battuta dalla cruda realtà: a lungo andare le azioni possono risvegliare il mostro dell’avidità più che la diligenza nel creare valore per tutti i soci.
Nel caso della Apple nulla da eccepire se si guarda al risultato: la società, a dispetto della scomparsa del fondatore santificato Steve Jobs, è andata in questi anni molto bene fino a diventare anche la società più capitalizzata al mondo.
Il «grigio» Cook ha guidato Apple in maniera convincente anche se c’è sempre chi attende la nuova rivoluzione dopo l’entusiasmo dell’era jobsiana di iPhone-iPad-iPod-iMac.
Ma ciò non toglie che le cifre fanno davvero riflettere, anche perché oggi non sono i fondatori a prenderle, ma i manager tout-court. Per avere un termine di paragone si ricordi che Jeff Bezos ha una ricchezza personale stimata in 90 miliardi di dollari, una cifra che lo proietta ai vertici della classifica mondiale degli uomini più ricchi ma che è almeno giustificata dall’aver creato direttamente Amazon. Non è un compenso da manager ma il risultato della fondazione di un’impresa rivoluzionaria.
Il vero capitale oggi non sono le terre e i latifondi. Ma le azioni. Incomparabili a queste valutazioni con altri beni. La storia si ripete, per esempio, con Sundar Pichai, ceo di Google, che nel 2017 ha ricevuto un compenso da 199 milioni di dollari, molti dei quali, anche qui, in azioni.
Proprio in queste ore si discute anche del caso del momento: Dara Khosrowshahi, il nuovo ceo di Uber. Non si conosce l’ingaggio di Uber anche perché la società non è (ancora) quotata e dunque non ha nessun obbligo. Ma tra opzioni varie a Expedia, la società che lascia, Khosrowshahi aveva diritto a circa 180 milioni di compensi ai quali forse in parte dovrà rinunciare con il passaggio. Proprio questo particolare sta alimentando un voyeurismo giustificato su quanto possa avergli promesso Uber per convincerlo.
Di certo dopo l’era dei fondatori questa sembra essere l’era d’oro dei manager.