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 2017  agosto 26 Sabato calendario

Tra gli ostaggi fantozziani a bordo del Frecciarotta

Siccome la fortuna è cieca, o almeno bendata, ma la sfiga ci vede benissimo, quel giorno prendo il treno. É il 5 gennaio 2009 e la sera ho il mio spettacolo-monologo Promemoria a Carpi: mille biglietti venduti, teatro esaurito. Meglio mollare la macchina, penso: furbo io, così fotto la nevicata dell’anno, anche se tutti dicono del secolo, caduta negli ultimi due giorni. Alla stazione Porta Nuova, nel primo pomeriggio, monto sull’Eurostar fino a Milano, poi c’è il Frecciarossa Milano-Roma, ma io scendo a Bologna e di lì il produttore Marcello Corvino mi porta in auto fino a Carpi.
Da Torino il treno parte in orario. Ma già a Milano è un casino. La Stazione Centrale è un formicaio di gente gelata, intabarrata, incappellata come Totò e Peppino all’inseguimento della malafemmina, solo che stavolta fa un freddo porco. Neve dappertutto, a mucchi, montagne, iceberg.
Intasati e impercorribili i binari laterali, riservati ai regionali e interregionali. Liberi quelli centrali dell’alta velocità. Che culo, ridacchia l’egoista che è in me. Ma gli passa subito l’allegria: i Frecciarossa Milano-Roma sono allineati l’uno dietro l’altro, tutti fermi. Ogni tanto ne parte uno, quando capita, random. Orari saltati, baraonda. Il maxi-schermo segnala ritardi di una, due, tre ore. I Totò e i Peppino in attesa, e io con loro, saltano sul primo libero che già parte con 168 minuti di ritardo (il mio si muoverà, se va bene, di lì a due ore).
Ammazza quanto è nuovo questo Frecciarossa. Non hanno nemmeno appiccicato le scritte adesive ai vetri delle porte fotoelettriche fra uno scompartimento e l’altro. Le poltrone sanno ancora di cellophane appena tolto. Accendo il pc portatile e inizio a scrivere la rubrica quotidiana per l’Unità. Tre quarti d’ora e ho finito. Sulla tabella di marcia, resta un quarto d’ora di viaggio. Ma il cosiddetto Frecciarossa, anziché sfrecciare, va a passo d’uomo. Se va bene, anziché in un’ora, arriviamo a Bologna in un’ora e mezza. Alzo gli occhi e guardo fuori: cielo nero e campi bianchi. A fondo carrozza si discute animatamente. Non resisto, vado a curiosare. Il capotreno, in mezzo a un capannello, sta spiegando che il treno va diretto a Roma senza fermate, tre ore e si arriva. Brivido gelato nella schiena: come sarebbe “senza fermate”? E Bologna? E Firenze? Nossignori: questo è il secondo giorno del nuovo Frecciarossa diretto Milano-Roma, non lo sanno i fortunati passeggeri che la nuova linea è stata inaugurata dai presidenti Napolitano, Berlusconi e Moretti proprio il giorno prima? Sette-otto passeggeri protestano: “Non lo sapevamo, col casino che c’era abbiamo preso il primo treno a caso, non si potrebbe fermare un minuto a Bologna e Firenze? Siamo partiti con 168 minuti di ritardo e chissà quanti ne stiamo accumulando, nessuno si accorgerà di nulla…”.
Mi aggiungo alle preghiere, ma molto timidamente e a voce molto bassa. Manca soltanto che uno a cui sto sulle palle chiami il Giornale o Libero, così domani mi sbattono mostruosamente in prima pagina: “Travaglio, il nemico dei privilegi, tenta di fermare il treno per scendere dove pare a lui”. Il capotreno è irremovibile: non è autorizzato a fermate supplementari. Una signora bolognese ha i bambini che escono da scuola e restano soli, la tata ha la sera libera. Niente. Uno di Firenze ha una cena di lavoro con dei giapponesi venuti apposta per lui. Niente. Io (lo sussurro appena) avrei mille persone che mi aspettano a teatro. Niente. Un ragazzo di Bologna non ha un euro in tasca e continua a ripetere: “Ma che ci faccio io a Roma? Dove dormo? E chi mi dà i soldi per tornare su domani?”. Già, perché quando arriveremo a Roma saranno le 23.30, se ci va di lusso, e non ci saranno più treni per Bologna. Tutto inutile.
Il capannello dei passeggeri che pensavano di scendere a Bologna e Firenze e hanno scoperto l’agghiacciante realtà si ingrossa. Ormai siamo una quindicina, gli ostaggi fantozziani che hanno sbagliato Frecciarossa. Mancano solo Totò e l’onorevole Trombetta. Il capotreno fa qualche telefonata per vedere se si può fare qualcosa. Niente: abbiamo quasi tre ore di ritardo, ma perdere 2-3 minuti per farci scendere non si può. Chiamo Marcello, il produttore e gli spiego la situazione: “Non resta che rinviare lo spettacolo”. Lui non ci crede, pensa a una burla: “Dài Marco non fare il cazzone, non è il momento di scherzare, dimmi che non è vero”.
L’altoparlante chiede se c’è un medico a bordo: un passeggero ha una crisi respiratoria o cardiaca. Vergognosamente, l’egoista che è in me esulta e ricomincia a sperare: dovranno curarlo, saranno costretti a fermare a Bologna. I medici a bordo sono più di uno, lo visitano, trafficano, confabulano. E noi, gli infami, a sperare che necessiti del pronto soccorso più vicino. Macché. Il passeggero si riprende subito e dicono che può arrivare a Roma, che Dio lo strafulmini. Non ci sono più i malori di una volta.
Ma ecco che il treno improvvisamente si ferma. Guardo fuori, a 300 metri c’è la stazione di Bologna. Raduno la truppa e corriamo dal capotreno: aprici le porte, scendiamo qui e andiamo a piedi fino alla stazione, dai, su, che ti costa. Niente, il regolamento non lo prevede. Restiamo lì a friggere, impotenti, a pochi passi dalla meta, per un quarto d’ora. Premiamo tutti i pulsanti, tiriamo tutte le leve, ma le porte restano chiuse. Il treno riparte lemme lemme, traccheggia beffardo davanti alla stazione che potresti calarti dal finestrino al volo con tanto di trolley, se solo il finestrino si aprisse. Manca poco che venga a me, l’attacco cardiaco o respiratorio o quel che è, per la rabbia.
Me ne torno furibondo verso il mio posto, imprecando frasi irriferibili. Davanti al bagno, socchiuso, una visione nello specchio sopra il lavabo. Una divina creatura, occhi verdi da gatto e capelli castani, si tampona il naso che perde sangue a fiotti. Ma sbaglio o è… Ma sì, è Francesca Neri! Lei mi vede riflesso nello specchio, strizza gli occhi, poi scoppia in una risata nervosa: “Nooo, Marco Travaglio! Anni che volevo incontrarti e guarda in che condizioni, in che situazione di merda mi capita di conoscerti!”. Sghignazziamo delle nostre rispettive disavventure. Io le racconto la mia. Lei la sua: si è spiaccicata il naso contro il vetro della porta fotoelettrica, talmente nuovo e lindo e trasparente e immacolato che sembrava non esserci proprio. Ma è già guasto e non s’è aperto quando avrebbe dovuto: lei ha provato ad attraversarlo, purtroppo respinta dal principio dell’impenetrabilità dei corpi. E alla fine, nella singolar tenzone, ha vinto lui.
“Potrei – azzarda – aggravare un po’ le conseguenze del mio incidente e parlare col capotreno: magari mi fa scendere a Firenze, così tu ti infili nel corteo sanitario, monti sul prossimo treno per Bologna, torni indietro e magari fai ancora in tempo. Io poi prendo quello dopo per Roma”. Rispondo che è meglio di no, già mi vedo i titoli della stampa berlusconiana: “Altro che leggi ad personam: i radical chic Travaglio & Neri fermano un treno con la scusa di un naso che sanguina”. Lasciamo stare, è andata così, meglio non sfidare la sfiga: capace che, dopo la nevicata del secolo e il nuovo treno superveloce che va a passo d’uomo e non ferma mai, mi becco pure una bomba a bordo o un deragliamento. Mi accontento di Francesca Neri. Benedetta la nevicata del secolo. E maledetto ’sto treno che ferma già a Roma.