Il Sole 24 Ore, 27 agosto 2017
L’altro Gadda. Un amore di fratello
Nell’estate 1915 i due fratelli Gadda, Carlo Emilio (1893-1973) ed Enrico (1896-1918), partirono volontari per una guerra che avrebbe riservato al primo la prigionia e al secondo la morte. Tornato da un lager tedesco, Carlo Emilio si disperò alla notizia ed entrò in un lutto a suo stesso dire mai superato.
Gli studiosi più avvertiti (Roscioni, Gioanola, Pedriali) si sono chiesti perché nell’opera del gran lombardo, così generosa di riferimenti ai genitori, il fratello compaia solo asetticamente in chiusa a La cognizione del dolore («sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo»), e insospettiti dal silenzio hanno evocato prototipi inquietanti: Caino e Abele, Giacobbe e Esaù...
Recentemente poi sono stati pubblicati alcuni utili documenti di complemento (in Arnaldo Liberati, Il mio Gadda, Stimmgraf, Verona, e Enrico Azzini, Il tenente pilota Enrico Gadda, IBN, Roma), ma resta la domanda: com’era “realmente” Enrico?
Gabriella Dosi, che conserva il carteggio di lui col padre Giancarlo, me l’ha mostrato. E dunque: compagni di scuola al Parini di Milano, i due organizzarono da subito un circolo ristrettissimo denominato Il Pensatoio, del quale erano leader indiscussi con gli pseudonimi di Nestore e Filopantacosmo. Al 1910 risale così un quadernetto a quattro mani che Enrico dissemina di disegni (donnine liberty ancora vestite) ed equazioni tipo: «Genio di Gadda Enrico = Darwin + [(Dante x Leonardo) + Michelangelo] + Omero + [(Ariosto x Tiziano) + (Goethe x Heine)] + Cesare + (Napoleone x Carlo Magno)». Poi un altro quadernetto del 1911 tutto dedicato al football, e su su fino al 1914, che riserva un lungo Notturno a due ragli per Gadda e Dosi.
Più interessanti ancora le lettere, tutte immancabilmente aperte con «fratellone» o «fratellissimo». Il 2 luglio 1912 ad esempio un Enrico quindicenne descrive giorno per giorno gli “studi” in corso: «Lunedì studio fisico sulla coppia di due gambe agenti su una pedaliera che trasmette il moto ad una ruota e derivantene velocità fino a Chiasso; studio della struttura fibrosa raggiunta dal cioccolato Tobler mandorlato e viceversa struttura olomacrobonogustosozuccherocristallina della cioccolata Susciard al latte; psicotelepatosazia dell’animo di una guardia che intorno ad un minorenne impubere che mangia cioccolato sguizzero che ci ha voglia di portarcene a casa sua dalla sua mamma fratellino sorellina cane gatto civetta lucertola pidocchio bisonte elefante Uruguay Paraguay + Sabatino Lopez» – e così via fino al sabato.
Dello stesso tenore, ma con maggiore “maturità” stilistica, le lettere dell’estate 1913, con descrizioni esilaranti di gite prealpine (rallegrate dalla presenza delle prime ragazze), e quelle dell’estate 1914 passata a curarsi del tifo (dovette posticipare l’esame di maturità risultando però primo della classe, come già il fratello Carlo Emilio), con elenchi pantagruelici di menu forzatamente in bianco.
Iscritto a ingegneria, Politecnico, la corrispondenza s’infittisce nella prima metà del 1915, perché Giancarlo frequenta a Pavia: poker, peripatetiche e interventismo i tasti fissi.
I due amici poi si ricongiungono nello stesso battaglione alpini, finché nell’estate 1916 Enrico, arcistufo di trincee, ottiene il trasferimento in aeronautica col grado di tenente. Così riparte la corrispondenza, da cui trascelgo:
20 novembre 1916. «Il bollettino di ieri mi conferisce la medaglia. Mi prenderò subito una robusta camera ove scopare quattro ragazze che mi porcellonano intorno a tutt’andare».
15 febbraio 1917. «Questa caduta da 700 m. che rese in briciole l’apparecchio e scorticò la prominenza che rende così simpatico il mio naso, mi procurò 7 giorni di riposo trascorsi beninteso a Milano. A mia madre e a mio fratello non dissi nulla di nulla; ma mi servì a far saltare 150 vecchi franconi a mio zio con la scusa di cure costose – quando mi arriva il fulmine di un foglio di viaggio per Foggia. Io arranco a far soldi a pagare i numerosi debiti, e fino al 4 sera me la godo a Milano in maniera pazza; ti basti dire che, andati a letto alle 7 di sera dopo un pranzo in due, in camera, ci alzammo alle 17 del giorno dopo. Qui al campo non mi sono ancora sverginato, cosa che spero fare poi domani. Di donne non ce n’è l’ombra, non essendovi altri casini che da 1 fr. per truppa e dove non fanno i vecchi pompini».
4 giugno 1917. «Ora ho appena 1200 £ di debito solido e piccoli debiti fluttuanti coi colleghi sul posto. La motocicletta la venderei volentieri: una Rudge 3 HP mod. 914 = £ 1000, anche a rate: non meno. Cerca fare l’affare. La moto non ha il bollo».
12 aprile 1918. «Volo parecchio – mi acciuffo di rado coi polli austriaci – ho concorso ad abbatterne uno – sto bene – ho pochissimi soldi sebbene vinca ancora a poker». Pochi giorni dopo sarebbe precipitato, per un’acrobazia del tutto gratuita al ritorno da una perlustrazione.
Alla fine del suo Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato integralmente vent’anni fa, Carlo Emilio appuntava: «Enrico, tu non eri mio fratello ma la parte migliore di me stesso». Il Giornale però era occupato quasi totalmente dalla parte peggiore: «la mia timidità, la mia debolezza d’animo, la mancanza d’autorità» che lo portavano all’isolamento dalla truppa sempre pronta a dileggiarlo, all’interruzione del rapporto epistolare con la sua “fiamma” segreta andata poi in sposa a un amico, alle crisi depressive e suicidarie.
Solo in due punti le due parti di Carlo Emilio entrano in attrito, nella stessa estate 1916: quando viene a sapere che i soldi generosamente passati a Enrico finiscono nell’acquisto di una moto, e quando l’ufficiale che giorni prima aveva premiato Enrico gli rifiuta seccato una promozione esaltando per contro il coraggio del fratello.
Così sarà più comprensibile lo sbotto del Nostro registrato in data 10 settembre 1919, quando la madre gli vietò di leggere le lettere scrittele dal figlio minore al fronte: «Quanto mi ama!».