Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 29 Martedì calendario

Quel Don Luis di Goya, un babbeo da opera buffa

All’inizio stenti persino a riconoscerlo, il pittore imparruccato, tanto sta annidato nel buio fondo d’un’arroventata penombra. La famiglia dell’Infante Don Luis di Borbone, dipinta da Francisco Goya intorno al 1783. Probabilmente l’artista è seduto su un tabouret
basso, con la sua figura svelta e cicisbea, che si proietta sin sulla tela, aurata di brace stanca, e un arruffarsi combattivo e placcato di pennelli e tavolozze. Qualche esegeta dice per prendere un poco la distanza ironica dalla scena, come si prende la mira. Qualcun altro, per non mescolarsi troppo, in controluce, con la famiglia reale, e mantenere il debito, doveroso distacco. Nonostante l’atmosfera sia quanto mai distesa e familiare. In un’aura digestiva, post prandium
pesante, e dispeptico, quando la coltre della satollaggine abbassa le sue palpebre-serranda, e la signora, al centro dell’attenzione, scioglie le trecce stoppose, stanche d’una ennesima giornata inutile, nelle mani leziose del parrucchiere di Corte.
Perché certo di una Corte si tratta, sappiamo tutto, ormai, anche se è una corte appartata, avvilita. Defilata. La corte morganatica dell’Infante Don Luis di Borbone, che sta piantato anche lui, lì, in primo piano, placcato provvisoriamente di profilo, come una medaglia sgonfiata. La pelle gottosa del viso, avvizzita da una cuperose di leccornie, troppo tardive, e da un accidia del vivere ormai incistata. Le mani tremolanti abbandonate sul praticello verde d’un tavolinetto da gioco, che d’un tratto potrebbe crollare, rovinosamente, come un instabile castello di carte. Visto che in verità non ha nessun sostegno reale, e forse non è altro che una metafora cruda del fiato ormai corto d’un Ancien Régime usurato, che si sta spegnendo. Come una miccia esausta. Imbibita però nel magnesio livido, che accende, per un attimo, cometa declinante, il chirurgico peignoir della Señora. Che non può però fregiarsi d’alcun titolo nobiliare, perché è lei che ha provocato tutta questa buriana, mesta e cariata.

Trentadue anni più di lei
Pur figlia d’un altolocato cavaliere aragonese, che non è però di sangue nobiliare, Dona Maria Teresa Vallabrega, con la sua bellezza sfacciata e le sue bizze volitive (lo sanno tutti che presto tratterà il consorte a suon di ceffoni) ha acceso le brame, mai dome, dell’Infante Don Luis. Che conta ben 32 anni più di lei. E in una storia molto Wally Simpson, grazie a una «Pragmatica de Matrimonios Desiguales», riesce a maritarsela, con gran scandalo del fratello-Re Carlo III, gettando pure l’abito talare, che non gli si addice (a sei anni era già Vescovo di Toledo. Di qui, forse, la bollita stanchezza esistenziale).
Lui ama l’arte, semmai, e la caccia, le belle donne, anche se non lo diresti, vedendolo così spento e quasi rimbambito, di fronte a un mannello di tarocchi ammutoliti, inerti, di cui non sa nemmeno investigare il destino (funereo, perché morirà due anni dopo). Il Re lo ha esiliato praticamente in una dimora defilata, «in un angolo di frescura alpina, nel cuore stesso della Castiglia», come scrive Eugenio d’Ors. E lì riceve Francisco Goya, il pittore accucciato come un fido spaniel, giù, nel bordo umiliato del quadro (in un omaggio trasparente alle Meninas di Velázquez).

Figure fantasmatiche
Un Goya ancora incerto, trentenne, non ancora così leggendario, ma deciso a diventarlo, anche dopo questo colpaccio fortunato, di dover ammannire un’opera tanto grandiosa e ambiziosa, d’ambito regale (sia pure smorzato di tono). Lui che non è ancora così perito, nell’arte del ritratto (e di fatti, all’amico fidato Zapater, scrive sgomento: «Che la Vergine del Pilar mi assista!»).
Probabilmente fu il ritrattato Floridablanca a mettere una parola buona, con Don Luis: e qui, nella frigida reggia, già quasi Biedermeier, di Arenas de San Pedro, Goya ha subito accesso a una sprezzatura stilistica miracolata. Uno spolvero geniale da maestro modernissimo, «fotografando» nei minimi dettagli, anche psicologici, i veri personaggi: figli, balie, domestici, avvampati tutti, per un attimo, dal brillio crepuscolare d’una bugia (in stile Wright of Derby) che sta per spegnersi e trascinarseli un dietro l’altro, entro una penombra abissale. Una fine del tutto epocale, che rende il mondo presente una fantasima. È la tesi di Ortega y Gasset, che pure non conosceva quest’opera, trattenuta segretamente a Firenze, in casa Ruspoli (giuntavi per vie matrimoniali) e poi acquisita dal musicologo Magnani (ora nella sua Fondazione, a Mamiano di Traversetolo). «Pur essendo fissate per sempre sulla tela, quelle figure sembrano perennemente delle apparizioni, ed è questo che le rende simili a fantasmi. Goya, sostenuto a tergo da Velázquez, è in procinto di creare quel gran corsivo della pittura», che è poi il linguaggio falotico dell’Impressionismo e della Modernità.
Se la piccola Maria (che poi diventerà la Contessa di Chinchon: altro ritratto al fosforo di Goya) è l’unica viva, sorpresa dall’effetto-candela, un sentore di morte, di finale battuta teatrale, di discesa simbolica del sipario storico, si spalma, su tutti questi ectoplasmi ipnotizzati. Salvo che nella figura fosforescente del gentiluomo agghindato, che con gesto di sfida, voltandosi di profilo, riflette tra sé e sé, alla sua agognata padrona (qualcuno vi ha ravvisato le fattezze del musicista di corte Luigi Boccherini). E in quella risata pitocchesca, franca e plebea, spavalda, del ragazzo (chi lo dice segretario di Maria Teresa, chi uno scudiero) che porta i segni evidenti d’un fresco duello.

«Atroce noncuranza»
Che cosa è successo? E perché ride, Franti maramaldesco, sfidando ogni regola di corte? Ma si frughi meglio nel sottobosco della penombra, ove pochi esegeti si sono spinti. Si presti attenzione alla figura cechoviana di quel servo, malvissuto e casanoviano, che non vede l’ora di andarsene, ma che ora però porta la mano al panciotto. Per trarvi che cosa? Un’arma? Un obolo? Una segreta missiva d’amore? Visto che il giovane gli si fa incontro, il braccio dietro la schiena e la mano a conchetta, pronta a catturare clandestinamente l’oggetto del delitto.
È questo dunque il vero mistero occultato dell’opera? Che voglia essere una satira corrosiva del sovversivo, «illuminista», trasgressivo Goya (secondo la lettura del regista Forman)? No certo. Se si leggono le lettere a Zapater, ove il pittore rivela la grande familiarità con l’Infante, doni, torroni, mule, stole di oro e argento, per la moglie Peppa, e via con gran complicità di cacciatori. Ma è la solita ambiguità di Goya, messa in luce da Ortega: «Senza calore umano» (a differenza di quello che pensava il romantico Baudelaire), «con atroce noncuranza», Goya dipinge quello che vede, senza prender partito. Meglio, quello che vedevano i nobili, suggerisce Fred Licht. E con «veggenza da sonnambulo» dà fuoco alla miccia della sua pittura fulminante, razzo planetario, senza nemmeno preoccuparsi del soggetto. «Il vero soggetto è soltanto il quadro stesso. (…) Sovente non riusciamo a capire se glorifichi o condanni i suoi temi, se li dipinga pro oppure contro». Solo questo noi possiamo sapere (e non ci capacitiamo), che Don Luis si dichiarò «aux anges», coprendolo di lodi e doni, per questo ritratto, che lo erige a perfetto babbeo da opera buffa.