La Stampa, 29 agosto 2017
Meno fiducia in Trump, i banchieri Usa vendono le loro azioni
A Wall Street, di solito, nulla è per sempre. Rischia di non esserlo l’«affaire» con Donald Trump, e potrebbe presto non esserlo più la cavalcata rialzista dei mercati azionari. Un segnale in questo senso arriva da Wall Street stessa, o meglio dai suoi grandi istituti bancari. I banchieri dei sei principali gruppi Usa, da Jp Morgan Chase a Bank of America, da Wells Fargo a Citigroup, passando per Goldman Sachs e Morgan Stanley, hanno venduto consistenti pacchetti azionari dei rispettivi istituti da loro detenuti. Se gli analisti insomma consigliavano di acquistare titoli delle grandi banche, dirigenti, top-manager e membri dei consigli di amministrazione degli stessi istituti procedevano in senso opposto rispetto ai loro investitori. Secondo una ricerca di Bloomberg, dagli «insider» sarebbero stati collocati sul mercato 9,32 milioni di azioni nel solo 2017. Anche escludendo la dismissione del consistente pacchetto azionario di Wells Fargo da parte di Warren Buffett, spinto da questioni regolamentari e anti-trust, il rapporto tra azioni cedute da questi individui e quelle acquistate è stata di 14 a uno. L’anno scorso i cosiddetti insider avevano comprato più di azioni di quelle che avevano vendute. L’inversione di tendenza è nel disinnamoramento per l’amministrazione Trump, ovvero la luna di miele tra il 45 esimo presidente americano e i banchieri potrebbe essere giunta al capolinea, e di qui a poco potrebbe accadere lo stesso con il «Toro» dei listini azionari. Ancor di più perché, come spiega al Financial Times Robert Smalley, analista di Ubs, i titoli bancari sono divenuti un «barometro» delle politiche dell’amministrazione Trump. Subito dopo le elezioni del tycoon il valore delle azioni delle grandi istituti Usa era molto salito per la speranza di una deregulation finanziaria che aveva riscaldato i motori ai mercati. E questi ultimi avevano proseguito il cammino di crescita ininterrotta iniziato nel 2009 che ha portato l’indice S&P ad apprezzarsi del 267%, il secondo più lungo dal 1900 nella storia Usa, e il terzo per aumento percentuale. Nel 2017 i titoli azionari hanno avuto il trend (sino ai primi di agosto) più duraturo in termini di ritmi di crescita dal 1965. A quel tempo alla casa Bianca c’era Lyndon Johnson, Martin Luther King dava inizio alla battaglia per i diritti civili con la marcia di Selma e Warren Buffett prendeva in mano le redini di Berkshire Hathaway, azienda tessile che trasformerà in una corazzata finanziaria. Tempi diversi ma accomunati dalla crescita dell’economia reale, quella iniziata dopo la crisi, la terza più lunga dal 1854. Ma che non si alimenta da sola se non arrivano le riforme promesse da Trump. Taglio delle tasse, rilancio infrastrutturale da mille miliardi, e deregolamentazione bancaria che tanto piace a Wall Street, ma che ha trovato un nuovo elemento di resistenza nell’asse «transnazionale» stabilito da Mario Draghi e Janet Yellen nel simposio dei banchieri centrali di Jackson Hole, in Wyoming. Ieri Wall Street, nella sua prima sessione post-summit è risultata debole, in attesa di segnali concreti dall’amministrazione. In mancanza dei quali si fa garante Gary Cohn, ex Goldman Sachs, superconsigliere di Trump, rimasto alla corte del presidente (dopo il caso Charlottesville) solo perché ambisce alla guida della Fed nel 2018. Alcuni vedono nell’8 agosto l’inizio dell’inversione di tendenza, da allora lo S&P 500 ha perso il 3%, e poteva andare peggio se Cohn si fosse dimesso. Per alcuni sono aggiustamenti, per altri no. La storiografia racconta che il «downturn» cronico dei mercati si innesca quando il calo tocca il 20%: Trump ha tempo sino ad allora per superare l’impasse e dimostrare di tenere fede agli impegni presi, nonostante tutto. In attesa di quel momento però i banchieri americani, a scanso di equivoci, continueranno a cedere azioni, mentre magari tutti gli altri le continueranno a comprare. Perché a Wall Street nulla è per sempre, eccetto che per alcuni.