Corriere della Sera, 29 agosto 2017
Uber, alla guida arriva Khosrowshahi, l’iraniano che ha rivoluzionato Expedia
Anni fa uno dei primi investitori del fondatore di Uber Travis Kalanick – probabilmente per difenderlo – sintetizzò così a Vanity Fair il suo carattere: «It’s hard to be a disrupter and not be an asshole». Traduzione politicamente corretta: è difficile essere un distruttore senza essere un cattivo ragazzo. Da ieri in Uber c’è l’uomo che dovrà risolvere i problemi del cattivo ragazzo: si chiama Dara Khosrowshahi, 48 anni, nato a Teheran e cresciuto nello Stato di New York. Se non è un volto conosciuto al grande pubblico tutti però conoscono l’azienda che ha guidato negli ultimi 12 anni: Expedia, cioè la app che ha fatto al settore dei viaggi quello che Uber sta facendo alla mobilità cittadina (o sei dentro o non esisti).
Dunque, non ce l’ha fatta Meg Whitman, la numero uno di Hewlett Packard che era rimasta l’unica contendente di quel posto nelle ultime ore e che lascia dietro di sé il legittimo sospetto che fosse stata ammessa nella short list definitiva solo in «quota rosa» dopo che la gestione-Kalanick era finita sul banco degli imputati anche, ma non solo, per gli scandali sessuali.
Non ce l’ha fatta nemmeno Jeff Immelt, storico manager di General Electric che però nel fine settimana, forse annusando la decisione nell’aria, aveva fatto sapere di non essere disponibile. In realtà se si guarda al curriculum il nome del meno famoso dei tre, Khosrowshahi, è quello che maggiormente si presta al modello di business di Uber. Immelt e Whitman vengono da un mondo pre-app dove le regole del gioco sembrano essere diverse.
La nomina è arrivata con un voto all’unanimità del consiglio di amministrazione di Uber, un segnale di distensione dopo mesi di contrasti e litigi. Peraltro, vista l’unanimità, Khosrowshahi ha necessariamente incassato anche il via libera di Kalanick che rimane nel board accanto alla nuova entrata estiva, Arianna Huffington, e che, non ultimo, sebbene defenestrato dalla plancia di comando, è sempre il proprietario della società.
Oltre al curriculum giusto il manager iraniano ha anche il profilo adatto alla circostanza: molta umiltà e poche concessioni al presunto primato della filosofia da Silicon Valley. Tra le sue frasi storiche spicca un motto alla Marco Aurelio: «La disruption è spesso guidata dalla disperazione». Lezioni apprese durante la sua vita da top manager più che ironia: da capo di un’azienda leader si è dovuto rimettere in gioco con l’arrivo-arrembaggio di Airbnb. Inoltre la sua più grande opportunità deriva da una dura decisione collettiva presa pochi giorni dopo l’11 settembre 2001. Khosrowshahi allora lavorava per una società media, la Iac (Daily Beast, Dictionary.com, Vimeo e Ask.com) che poco prima dell’11 settembre aveva acquistato Expedia da Microsoft.
Una delle clausole dell’accordo prevedeva la possibilità di recesso in caso di gravi sconvolgimenti e non c’è dubbio che l’utilizzo di aerei di linea quali bombe contro dei grattacieli a New York, un atto di guerra, era tale per il settore dei viaggi e del turismo. Il management di Iac si riunì per decidere e, come ha raccontato in seguito lo stesso Khosrowshahi che era presente quel giorno, si optò per stringere i denti e tenere Expedia convinti che fino a quando ci sarà vita, la gente viaggerà.
Umiltà, il contrario di quanto mostrato da Kalanick in questi anni: ha litigato anche con un autista di Uber che si lamentava di non guadagnare abbastanza per vivere (il video è finito in rete). Dal punto di vista economico la fama da cattivo ragazzo del fondatore ha funzionato: nel 2014 la start up era valutata 19 miliardi. Prima dell’estate era giunta quasi a quota 70. Si trattava della maggiore crescita prima dell’annuncio di una quotazione in Borsa, comprese le varie Facebook, Google e Twitter. Per fare un esempio, la società di Mark Zuckerberg aveva toccato i 104 miliardi il primo giorno di Borsa con l’Ipo. Tutto ruotava intorno al culto della personalità di Mister Uber, padre di un movimento, chiamato «uberizzazione» dell’economia, che è andato oltre alla sua stessa creatura ma che ha fatto naufragio tra accuse di sessismo rampante all’interno dell’azienda con la denuncia di un ingegnere, Susan Fowler, del totale disinteresse da parte dell’ufficio delle risorse umane rispetto alle lamentele, tentativi di raggirare le istituzioni con app fantasma e accuse di spionaggio industriale con Google sulle automobili che si guidano da sole. Tutti indicatori di una aggressività molto oltre il tollerabile anche per una società «innovativa».
Di fatto il caso Uber ha permesso di misurare forse per la prima volta quanto vale il maschilismo a Wall street. Vanguard e Hartford, due dei più grandi fondi americani, hanno ridotto del 15%, a circa 50 miliardi, la propria valutazione. Solo leggermente di manica più larga T Rowe: il maschilismo in questo caso si è fermato a 12 per cento in meno. Nell’era in cui ogni cosa passa dal valore economico ora è chiaro che anche discriminare o essere troppo aggressivi vuole dire perdere miliardi. Anche se, ironia della sorte, tutto ciò è scivolato sulla pelle degli utenti: la società ne ha appena comunicato la crescita.
Per gli amanti dei corsi e ricorsi la storia di Kalanick ricorda altri casi eclatanti come la cacciata di Steve Jobs da Apple negli anni Novanta e quella di Jack Dorsay da Twitter, poi richiamato come Jobs.
Dunque, è lecito domandarsi: anche per Kalanick ci sarà una seconda possibilità?