Il Sole 24 Ore, 29 agosto 2017
Così Big Oil ridisegna le frontiere dell’energia
Per quale ragione il gruppo petrolifero francese Total ha firmato nuovi contratti in Iran ed in Qatar? E perché i russi stanno puntando su acquisizioni e progetti in Cina e in India?
Per quale motivo l’americana Goldman Sachs ambisce a portare in Borsa la Saudi Aramco, gioiello della monarchia saudita?
Business is Business. Non di rado politica e affari corrono su binari diversi. Soprattutto nel mondo del petrolio e del gas, dove le grandi multinazionali energetiche (Big Oil) hanno sempre avuto interessi quasi dappertutto, sovente anche in Paesi tra loro rivali.
Qualcosa, tuttavia, sta cambiando. L’avvento di Donald Trump, un presidente meno incline alla diplomazia e più affezionato alle sanzioni, pare aver accelerato un processo di polarizzazione delle crisi geopolitiche in corso creando grandi blocchi contrapposti dove l’energia si fonde con gli interessi politici. Un Risiko dell’energia dove però stanno emergendo alcuni liberi battitori, come la Francia.
Trump e il dominio energetico Usa
Trump ha le idee ben chiare. La sua ambizione,annunciata a giugno, è il «dominio energetico degli Usa». Farli diventare i secondi esportatori mondiali di gas naturale liquefatto (Lng), puntando a venderlo in Europa dopo aver ridotto la sua dipendenza dalla Russia (cosa piuttosto difficile). Nel piano di Trump rientra anche l’esplorazione delle grandi riserve dell’Artico e l’isolamento dell’Iran. Anche per questi motivi, in soli sei mesi sono scattate sanzioni contro Russia, Iran e Venezuela.
In questo scenario di blocchi contrapposti, le oil major preferiscono muoversi con cautela. Dopo tre anni di crisi, Big Oil sembra aver imparato a convivere col petrolio a 50 dollari. «Terminato con successo il processo di taglio dei costi e di miglioramento delle tecnologie, diverse major avrebbero la capacità di effettuare investimenti per progetti per l’acquisizione di società. Ma c’è cautela», spiega Davide Tabarelli,presidente di Nomisma energia. «Non c’è finora un grande appetito per nuovi, grandi progetti petroliferi nel mondo. In questo periodo di prezzi bassi la priorità per molte major è la riduzione delle spese e il mantenimento di bilanci sani», ribadisce al Sole 24 Ore Nick Coleman, analista di S&P Global Platts.
Il nuovo dinamismo della Total
Eppure c’è anche chi non ha esitato a effettuare investimenti in territori imbrigliati in complesse crisi internazionali. È il caso della francese Total, quest’anno la major più attiva sul fronte delle acquisizioni. Il colpo che ha sorpreso il mondo lo ha messo a segno in Iran. Il 3 luglio è divenuta la prima grande major occidentale a firmare un progetto (4,8 miliardi di dollari) da quando sono state rimosse le sanzioni. Si tratta dello sfruttamento della fase 11 del giacimento di gas di South Pars, il più grande al mondo. Total sarà l’operatore di un consorzio (con una quota del 50,11%) in cui figura la cinese Cnpc con una quota del 30 per cento.
Agli occhi dei sauditi, nemici di Teheran, ma anche agli occhi di Trump, l’iniziativa di Total non dev’essere stata molto apprezzata. D’altronde il dinamismo della major francese si accompagna a quello del Governo di Parigi, deciso a sparigliare le carte in alcune aree critiche e rafforzare il proprio ruolo sullo scacchiere internazionale. Come in Libia, il Paese con le più grandi riserve di greggio di tutta l’Africa, dove l’italiana Eni è il primo – e storico – operatore internazionale. Da tempo la Francia aveva mostrato la sua simpatia nei confronti del potente generale Khalifa Haftar, l’uomo che controlla la Cirenaica, la regione della Libia con le maggiori riserve. Un generale che ambisce a divenire presidente del Paese, e che piace anche al Cremlino. Invitando a Parigi i due rivali, Haftar e il premier del Governo di accordo nazionale basato a Tripoli Fayyez al-Serraj (in teoria il solo legittimato dall’Onu a governare il Paese) il presidente francese Macron ha di fatto sdoganato Haftar. Parigi ora potrebbe prepararsi a giocare, tramite Total, un ruolo decisivo sulla futura spartizione della ricchissima torta energetica dell’ex regno di Gheddafi.
«Total – continua Coleman – ha sempre mostrato una certa inclinazione per il rischio politico, più di altre compagnie energetiche. Per esempio, grazie alla sua partecipazione nel grande impianto di liquefazione di Yamal (Total ha una quota del 20%), nell’estremo Nord della Russia, ha costruito negli anni una certa esperienza per aggirare le sanzioni americane. È in joint venture con la compagnia russa Novatek (51%),che utilizza finanziamenti cinesi (la Cnpc ha una quota del 20% ) e si avvale di crediti da parte di banche europee. Sempre la Francia si è fatta capofila degli investimenti internazionali in Iran, con il contratto per sviluppare South Pars. Ancora una volta con la compagnia cinese Cnpc. Altre major, con portafogli più importanti, sono state più caute».
L’appetito energetico francese non si è fermato in Iran. Poco prima era stata la volta del Qatar. Dallo scorso 5 giugno il piccolo ma ricchissimo emirato, potenza mondiale dell’Lng, è al centro di una grave crisi diplomatica con le monarchie sunnite del Golfo, capeggiate dall’Arabia Saudita, che hanno imposto un embargo totale, navale, terrestre e aereo. Il fatto che nel pieno della crisi Total abbia annunciato un contratto con la Qatar Petroleum, aggiudicandosi una quota del 30% nel giacimento petrolifero di al-Sahaheen, non avrà fatto molto piacere ai sauditi. Riad, ora l’alleato mediorientale dell’America di Trump, vorrebbe vedere in ginocchio la produzione petrolifera di quel blocco contrapposto in cui figurano il suo rivale storico, l’Iran, ma anche il piccolo Qatar (dove peraltro Shell è il primo operatore straniero ma in cui sono attive diverse major americane). «La logica suggerisce che Riad – continua Coleman – necessiti di mantenere buone relazioni con le major internazionali se vuole portare a termine con successo il suo grande programma di diversificazione e sviluppo dell’economia. Il progetto con Total relativo alla raffineria di Satorp a Jubail è un esempio. Ma la logica non sempre prevale». «La raffinazione è strategica per i sauditi. Gli consente di ricavare valore aggiunto in un periodo di bassi prezzi del petrolio», commenta Tabarelli. Non è peraltro un caso che alcuni nuovi Ceo di grandi major provengono proprio da questo settore.
La difficile alleanza Riad-Washington
La cooperazione tra Riad e Washington poggia tuttavia su un terreno sdrucciolevole. Come tutti i Paesi dell’Opec, l’Arabia, da tre anni alle prese con deficit di bilancio, vorrebbe veder il prezzo del petrolio su livelli più alti, anche 70 dollari. Ma sa bene che, se ciò avvenisse, a beneficiarne sarebbero anche – e soprattutto – le compagnie americane che producono shale oil, i cui costi di produzione sono maggiori. Con il barile a 60/70 dollari la shale oil industry potrebbe ricreare quell’eccesso produttivo che ha fatto sprofondare i prezzi dai 115 dollari al barile del giugno 2014 ai 40 dei tre anni successivi.
La rinvigorita relazione commerciale tra Usa e Arabia è dunque costruita anche in chiave anti-Iran e anti-Russia. In maggio, Saudi Aramco, il colosso energetico della monarchia saudita, ha acquisito il controllo del 100% della più grande raffineria americana, quella di Port Arthur, in Texas. Mentre pochi giorni fa la banca d’affari Goldman Sachs, vicina alla Casa Bianca, ha acquistato una parte dei crediti vantati dalle banche nei confronti di Saudi Aramco per ritagliarsi un ruolo nella quotazione del 5% della compagnia prevista per il 2018. Si tratterebbe della più grande Ipo della storia, con un valore che potrebbe aggirarsi intorno ai 100 miliardi di dollari.
Total, invece, pare correre da sola. L’ultimo colpo è stata l’acquisizione, annunciata il 21 agosto, della divisione oil del gruppo danese Ap Moller Maersk, operatore nel Mare del Nord con un miliardo di barili in riserve, per un totale di 7,5 miliardi di dollari. L’effetto immediato sarà di portare la produzione del gruppo sopra i 3 milioni di barili al giorno.
«Patrick Pouyanne, ceo di Total – precisa Coleman – ha mostrato senza mezzi termini il suo punto di vista. Vale a dire che a causa di bassi prezzi del petrolio e di una generale mancanza di investimenti, il mondo potrebbe affrontare una carenza di offerta nell’arco di pochi anni. Immagino che ritenga che l’industria petrolifera non stia facendo abbastanza per ricostruire l’offerta e che ognuno stia facendo troppo affidamento sullo shale americano. Ha senso per Total, poco coinvolta nell’industria Usa dello shale, cercare nuovi e lunghi progetti in Medio Oriente. Potrebbe sbagliarsi, ma sembra voler creare relazioni di lungo termine con Paesi che hanno grandi riserve».
La Russia guarda a Oriente
E la Russia? Se il pacchetto di sanzioni Usa dovesse essere approvato così come concepito, uno tsunami si abbatterebbe sul settore energetico europeo. Verrebbero messi a rischio otto grandi progetti,anche già esistenti. E le compagnie europee sarebbero mese davanti a una scelta: rinunciare al mercato americano o mantenere lo status quo. «Non è azzardato ipotizzare – precisa Tabarelli – che le compagnie europee la loro scelta l’abbiano già fatta. Ed è la Russia, un cordone ombelicale energetico indispensabile per l’Europa. Difficile che il Governo tedesco compia un passo indietro sul gasdotto Nord Stream 2. Ed è difficile che altre major rinuncino ai loro progetti in corso con la Russia». Ma è altrettanto difficile che le sanzioni vengano applicate come concepite. «Danneggerebbero anche un grande progetto in Kazakhstan in cui è coinvolta Chevron. Non mi pare che Nord Stream 2 corra un rischio significativo», continua Coleman.
Secondo esportatore mondiale, la Russia, pur considerando il mercato europeo irrinunciabile, sta puntando al promettente mercato asiatico. Da un mese è divenuta primo fornitore di greggio della Cina, scavalcando l’Arabia. Russia e Cina hanno grandi progetti in comune: oleodotti e gasdotti. La major petrolifera russa Rosneft è molto attiva. «Ambisce a divenire una major internazionale», conclude Tabarelli. Dopo aver privatizzato il 20% (acquistato da Glencore e il Fondo del Qatar), unasettimana fa Rosfnet ha completato con la svizzera Trafigura e il fondo russo Ucp l’acquisizione della raffineria indiana Essar Oil. Un’operazione da13 miliardi di dollari (Rosneft ha acquisito il 49%) che rafforza i rapporti economici fra Russia e India. È la più grande acquisizione straniera avvenuta in India, Paese che Trump considera alleato. Una mossa che potrebbe creare malumore. Come il prestito di Rosneft, 6 miliardi di dollari, alla compagnia petrolifera venezuelana.