Il Messaggero, 28 agosto 2017
Brian Epstein, il quinto Beatles che inventò il mito dei Fab Four
Il rito della memoria spesso cade nelle esagerazioni. Prendiamo la storia del quinto Beatles: quanti sono? Un esercito. Anche Brian Epstein è uno dei quinti Beatles, pur non avendo ha mai suonato in vita sua e si racconta che, addirittura, detestasse la musica pop. Eppure c’è una domanda legittima: che cosa sarebbero stati i Beatles senza Epstein? E la risposta non è così scontata. Perché, quando quel giovanotto intraprendente andò a vederli per la prima volta al Cavern club di Liverpool, John, Paul, George e Pete Best ancora alla batteria (quello che nella storia passa sempre come il quinto Beatles sfortunato e, in realtà lo è stato con Ringo che prese la sua batteria) erano una band divertente, ma di ragazzi ancora rozzi, certamente ben lontani dal sound e dal look (vestivano di jeans e giacconi di pelle) che li avrebbe trasformati in un virus che, negli anni 60, si è diffuso in tutto il mondo e finora nessuno l’ha debellato.
LE DOMANDE
Ancora: Brian Epstein è morto 50 anni fa, il 27 agosto, per un’overdose di sonniferi. Era appena uscito il disco più celebrato dei Fab Four, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, tre anni dopo la band si sarebbe divisa in preda a odi pressoché feroci. Sarebbe successo con Brian ancora vivo? Altra domanda senza risposta. Ma ce ne sono altre che la risposta ce l’hanno. Pur non avendo il bernoccolo degli affari (il catalogo Lennon-McCartney, quello poi comprato da Michael Jackson, altrimenti sarebbe stato proprietà degli autori), pur non sapendo nulla di musica (se non per essere il venditore di dischi nel negozio di papà), pur avendo prodotto alcune cappellate manageriali, come la disastrosa gestione delle tournée (i concerti americani furono quasi tutti in perdita) e del merchandising facendo perdere ai suoi assistiti una barca di soldi (non che abbiano sofferto la fame) e perdendoli lui stesso, visto che aveva una percentuale del 25 per cento, senza il talento e il gusto di quel ragazzo gay (si dice che fosse innamorato di John il quale nell’80, parlando con Playboy, specificò che si trattava di un amore mai consumato) il talento dei Beatles avrebbe avuto un’altra storia.
Fu lui a procurare il primo contratto con la Parlophone, fu lui a trasformare il primo 45 giri, Love me do, in successo (comprando lui 10 mila copie e mandando, così, il pezzo in hit parade), fu lui a rivestirli e ripulirli trasformandoli in un prodotto adatto al consumo di massa con gli abiti disegnati dal sarto Douglas Millings e a scegliere la famosa pettinatura a caschetto. Ancora: è stato lui a invitarli a sognare quel successo mondiale prima di raggiungerlo e, poi, a cercare di amministrare quegli ego gonfiati dalla fama ipersiderale.
George Martin, un altro quinto Beatles, disse: «Epstein ha dato loro stile, gusto e fascino». Non è poco, specie vista la durata e la vastità di quel mito.
Quell’anno, il 67, fra i Beatles e Epstein le cose non andavano come prima. Effetto del trionfo smisurato, della crescita dei quattro ragazzi di Liverpool, dell’insofferenza a farsi guidare (e, infatti, dopo vollero andare avanti da soli), degli errori di Epstein che diventò ansioso e depresso.
IL CONTRATTO
Era sicuro che i FabFour non gli avrebbero rinnovato il contratto (certamente, comunque, non con quello spropositato 25 per cento firmato nel 61). Si rifugiò nel gioco e nelle droghe. Quando morì furono avanzati anche sospetti di suicidio, poi smentiti dagli accertamenti. Ma un fatto è sicuro: quel giorno di fine agosto con Epstein cominciarono a morire anche i Beatles.