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 2017  agosto 28 Lunedì calendario

Ma quanto vale la rete Telecom? Il pasticcio della banda larga

L’occasione per parlarne sarà il 27 settembre, a Lione, al bilaterale Francia-Italia. Lì s’incontreranno i premier Emmanuel Macron e Paolo Gentiloni. È probabile che in agenda, oltre al caso Fincantieri, ci sia la Telecom che ha primo azionista Vivendi (al 24%), con la questione del futuro della rete. Già giovedì 31 agosto potrà emergere qualche orientamento, alla conference call con gli analisti del gruppo presieduto da Vincent Bolloré. Al vertice di oggi dei premier Ue a Parigi, invece, il tema non pare in agenda. 
Sui cavi in rame e fibra ottica, che portano nelle case l’Internet più o meno veloce, la partita è complessa e in pieno gioco. Scorporare la rete di Telecom e venderla, o conferirla, a una nuova società che abbia tra i soci l’Open Fiber (Of) pubblicoprivata del piano nazionale sulla banda ultralarga? Se sì, a che valori? O lasciare che Telecom e Of corrano in parallelo per cablare l’Italia? Siamo ancora all’impasse. 
La forchetta 
Da anni si assiste al balletto delle cifre sulla valutazione della rete di accesso di Telecom: dai 22 miliardi emersi dieci anni fa ai 15 stimati con Bernabè nel 2013 ai 20-25 ipotizzati a giugno, in audizione al Senato, dallo stesso ex amministratore Flavio Cattaneo. Fino ai 13 miliardi ventilati di recente. Ma bisogna capire di che cosa si parla. Rete passiva? Attiva? Con che perimetro? È in base a questi parametri che cambia il valore. La forchetta può essere molto ampia: addirittura fra 6 e 13 miliardi, secondo esperti d’infrastrutture consultati da L’Economia. E fino a 15 miliardi per banker non impegnati (per ora) con Tim. I calcoli escludono Telecom Sparkle, la società strategica dei cavi sottomarini che «deve restare italiana», ha detto Gentiloni il 24 agosto, prima del vertice a Palazzo Chigi sulla possibilità di esercizio della golden power da parte del governo, la norma che «blinderebbe» Telecom per arginare Vivendi. 
Il valore più basso (6 miliardi) corrisponde alla rete «stupida», quella passiva (in Italia): cioè solo i tubi e i cavi, senza la parte attiva. Cioè la tecnologia elettronica che «accende la rete». Inoltre presuppone che l’ammortamento ci sia già stato e considera l’anzianità del network. La rete Telecom, circa 500 mila km di tubature solo nel Paese (con oltre 200 milioni l’anno di costi di manutenzione stimati), si è cominciata a costruire negli anni ’30 ed è soprattutto in rame, che invecchia. Ora è in corso la sostituzione con la fibra (e secondo la relazione 2017 di Agcom sono ora il 72% le unità immobiliari raggiunte dalla fibra in Italia – diversa è la penetrazione dei servizi: 2,8% le linee con velocità oltre i 100 mega). Ma qui c’è un concorrente adesso: Open Fiber. Inoltre i 6 miliardi valgono nell’ipotesi di vendita dopo il 2018, quando ci sarà più fibra nel Paese e il valore del rame sarà sceso. 
La cifra più alta (13 miliardi) corrisponderebbe invece alla vendita immediata della rete «intelligente», pacchetto completo. Cioè tubi, cavi, più armadi in strada ed elettronica. Non include l’ ammortamento e non «prezza» la rete a lunga distanza, meno preziosa e più disponibile. 
Le banche d’affari, che comunque per mestiere hanno un occhio bene aperto sui guadagni dalle acquisizioni dei clienti, seguono un altro percorso. Poiché non c’è al mondo una società delle reti telefoniche quotata, partono dai margini che la rete produrrebbe, applicando i multipli delle torri di telecomunicazione (settore affine, ma più giovane e tecnologico di una rete in rame). Con un margine operativo lordo (Ebitda) di 1,71,8 miliardi, un multiplo di 11 (la parte più bassa della forchetta di valutazione delle torri) porta a un valore di 18,7-19,8 miliardi. Ai quali andrebbe, naturalmente, sottratta l’eventuale quota di debito Tim attribuita alla nuova società. La valorizzazione della rete Telecom potrebbe però anche passare per una quotazione in Borsa, seguendo il modello Inwit: scelta che consentirebbe a Tim di continuare a consolidare i margini, se mantenesse la maggioranza. 
Certo, nessuno ha la ricetta in tasca, sul variabile futuro delle telecomunicazioni: ogni valutazione della rete Telecom è aleatoria. E nessuna posizione ufficiale è stata presa: si può solo ragionare in teoria. Resta il fatto che ogni decisione è oggi difficile, perché i protagonisti hanno posizioni diverse, anche internamente: cioè governo, Telecom e Open Fiber (che è di Enel e Cassa depositi e prestiti e deve portare l’Internet ultraveloce direttamente nelle case con potenza altissima, un giga in Ftth, su tutto il territorio nazionale). 
Telecom ribadisce che la rete non è in vendita, ma il suo amministratore delegato Arnaud de Puyfontaine ha anche dichiarato di essere pronto, in linea di principio, a discutere di progetti relativi allo scorporo della rete con il governo. Franco Bassanini, presidente di Of, si è detto possibilista sull’acquisto della rete, per innestarla in una nuova società pubblico-privata, dove Of potrebbe confluire; ma il suo socio in casa Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel che di Of ha il 50%, è contrario. E la Cdp, controllata dal Tesoro, pare aperta all’acquisto: ma per Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo, il dossier non sarebbe in agenda, anche se «concentrare gli investimenti su un’unica infrastruttura sarebbe una cosa buona e giusta». In linea il suo sottosegratario Antonello Giacomelli, convinto che 13 miliardi siano troppi. Dopo lo scontro con i francesi su Fincantieri, il problema è politico, più che industriale. 
Per la Telecom che Bolloré – primo azionista anche di Mediaset – vuole trasformare in una media company, la cessione sarebbe un modo per ridurre i debiti e scavalcare la legge Gasparri, che impone un tetto alle partecipazioni nel settore di media e telecomunicazioni. 
Ma significa anche privarsi di un asset che incide moltissimo sulla capitalizzazione di Borsa che è intorno ai 12,4 miliardi: cederla significa svuotarsi di valore (e la valutazione di un service business, in Italia, è solo tre volte l’Ebitda). Inoltre Telecom diventerebbe uno dei tanti competitor, affittando la rete per trasportare i dati. In sostanza, la vendita sarebbe un favore a Bolloré, più che all’azienda. 
L’effetto sull’Enel 
E per Open Fiber? Inglobare la rete di Telecom è una via per conquistare clienti più in fretta (rubarli all’incumbent è difficile). E tagliare gli investimenti. Sulle aree da cablare A e B (a mercato), con i 500 milioni già avuti dalle banche e i 500 in arrivo dalla Bei, Of avrebbe autonomia per il 2018. Poi servirebbe il prestito da 3 miliardi, che le banche possono concedere solo a piano avanzato, in base ai ricavi 2018. Avere la rete Telecom taglia i costi. Ma significa anche assorbire 11 mila persone in una società pubblica. E diluire nel capitale l’Enel, fare entrare altri (magari fondi come F2i). Di fatto, sciogliere il piano renziano da 6,8 miliardi per 271 città (più 6.753 comuni non a mercato) di Of, sul quale sta procedendo Tommaso Pompei. L’amministratore delegato è in scadenza nell’aprile 2019. Si potrà parlare di una sua sostituzione, nel caso, prima. Accusato di gigantismo, può replicare che su un’infrastruttura del tutto innovativa, come quella di Of, va investito molto e sul lungo periodo. Ma come uscire dal cul de sac? 
Una soluzione è il patto Stato-Telecom di spartizione delle aree. Il doppio binario: la fibra ultraveloce copre le grandi città, ad alta densità, e il rame quelle medie. È il vecchio piano Metroweb. Viste le tensioni con i francesi, però, ora può essere troppo tardi.