CorrierEconomia, 28 agosto 2017
Auto cinese, la lunga marcia
Non ha preso la Jeep, ne ha solo parlato, ma con quelle voci il signor Wei Jianjun, 53anni, presidente e maggiore azionista di Great Wall, ha mosso centinaia di milioni tra le Borse di Milano, New York, Hong Kong e Shanghai. D’altra parte la Cina oggi ha un peso enorme nel mercato mondiale dell’auto. Ventotto milioni di veicoli venduti nel 2016, una crescita continua da 26 anni e una previsione di incremento tra il +2 e il +6 per cento anche nel 2017. Con questi numeri la Cina è il primo mercato dell’auto. Oltre il 60% delle vetture comprate dai cinesi hanno marchi stranieri, anche se le leggi, nel mercato «con caratteristiche socialiste cinesi», impongono ai gruppi internazionali che producono qui di agire in joint venture con industrie locali, controllate dallo Stato. Il restante 40% di mercato, presidiato dai costruttori cinesi, vale comunque oltre 11 milioni di veicoli l’anno e a contenderselo ci sono 46 case. Troppe, dice Zhu Huaron, presidente di Chang’an Automobile, grande gruppo di proprietà statale, prevedendo un inevitabile sfoltimento.
Mai sentito parlare di brand come Zhongxing, Hangtian, Oley, Huanghai? Certo che no: dalle loro catene di montaggio escono meno di mille veicoli all’anno. E un’altra trentina di produttori cinesi non supera le 100 mila unità. I piccoli non terranno il passo della concorrenza e scompariranno: dovranno chiudere o essere assorbiti dai grandi; dopo le manovre di consolidamento nel settore «resteranno più o meno cinque brand cinesi di grande successo e ne sopravviverà qualcun altro più piccolo che però faticherà», prevede il compagno dirigente Zhu Huaron. Chang’an (Pace eterna), forte degli abbondanti finanziamenti governativi, è una delle realtà più solide: 4° posto per vendite di veicoli passeggeri e commerciali. Si dice erede di una rinomata fabbrica di armi nata nel 1862 e ancora oggi, dopo passaggi intricati, le sue azioni sono legate all’industria militare di Pechino. Ha cominciato ad assemblare veicoli fuoristrada negli anni 50 ed è cresciuta stringendo accordi con Suzuki nel 1993 e con Ford nel 2001. Oggi ha anche una fabbrica in Russia e con il suo Suv CS75 punta ad esportare fino alla periferia dell’Unione Europea.
Il numero 1 del Paese è Saic (Shanghai Automotive Industry Corporation). Un gigante di livello internazionale che produce in joint venture con Volkswagen e General Motors ed è presente in una quindicina di Paesi. Saic ha appena lanciato la Roewe RX5, primo Suv puramente elettrico al mondo, autonomia di 425 chilometri e capacità di ricarica in meno di 60 minuti. La casa ha acquistato il brand inglese MG. L’azienda deve il suo sviluppo impetuoso al potente proprietario: la municipalità di Shanghai. Vende oltre 5 milioni di veicoli all’anno e il suo amministratore delegato, Chen Zhixin, vuole pilotare il marchio nell’era delle auto intelligenti: Saic ha sviluppato con Alibaba il sistema operativo Banma (Zebra per il mercato estero). Proprietà statale anche per Dongfeng (Vento dell’Est), numero 2 nella classifica cinese con 4.276.700 veicoli venduti nel 2016, incremento del 10,4% sul 2015. Però, secondo i dati della China Association of Automobile Manufacturers, solo 1.377.400 di questi mezzi sono di concezione cinese, il grosso è prodotto in joint venture con case straniere. Dongfeng ha contribuito a salvare dal fallimento Psa Peugeot Citroën entrando nel capitale con un 14,9%: 800 milioni di euro sborsati dal governo di Pechino e benedetti da quello di Parigi.Vento dell’Est produce anche per l’esercito: il suo Dongfeng EQ2050 da ricognizione, simile alla Humvee americana, ha una versione civile: Mengshi (Uomo forte), venduta per circa 110 mila euro.
La posizione numero 3 è di Faw (First Automobile Works), altro produttore di Stato. Nascita nel 1956 con l’aiuto degli ingegneri sovietici e partenza con i camion. Nel 1958 mise in strada la prima vettura passeggeri cinese: la Hongqi, Bandiera Rossa. Era destinata ai dirigenti e per trent’anni il suo disegno è rimasto identico. Poi, con la grande apertura di mercato decisa da Deng negli anni ‘80, i funzionari hanno optato per le Audi e le Mercedes e la Hongqi è diventata una reliquia, riservata ai capi di Stato. Salvo ricomparire recentemente in un costoso tentativo di rilancio ora che la Cina è seconda economia del mondo e si può permettere una linea di produzione solo per vetture di rappresentanza politica.
Tra i privati destinati a restare si è fatto largo Geely. Il suo proprietario Li Shufu, 54 anni, è stato il primo cinese a fare acquisizioni all’estero nell’industria automobilistica. Nel 2010 con 1,8 miliardi di dollari rilevò la svedese Volvo, che sembrava a fine corsa e invece è tornata a fare utili: 785 milioni di dollari nel 2016. Nel 2013 Li Shufu ha anche rilevato la fabbrica dei mitici taxi neri londinesi. Circolano anche vetture di brand Geely e il know-how venuto dalla Svezia ha aiutato molto. Secondo JD Power, società di ricerca e consulenza, la qualità del «made in China» è ormai vicina al livello internazionale, ma per stare sul mercato è necessario globalizzarsi. Così si spiegano le ambizioni, premature nel caso, di Great Wall che ha mosso la calma di agosto con le voci di interesse per Fiat Chrysler e la sua iconica Jeep. Great Wall, che nel 2016 ha venduto 1,07 milioni di veicoli ed è in testa nel settore dei Suv, è il secondo costruttore privato cinese. Il suo presidente Wei Jianjun non è uno sprovveduto, lavora con i motori da 25 anni, ha una fortuna personale di 5,3 miliardi di dollari e da poco si è dato anche un nome americano (Jack Wey), per crearsi un’immagine internazionale. Non è detto quindi che in futuro la sua ambizione di salire sulla Jeep non torni in primo piano.