CorrierEconomia, 28 agosto 2017
Banche, uno strappo da ricucire (o nuovi rischi)
Fra il 2008 e il 2013 uomini politici e di governo, banchieri privati e, in certe occasioni, anche i banchieri centrali hanno ripetuto messaggi fra loro coerenti. La sostanza era: l’Italia è diversa. Il suo sistema creditizio, tradizionalmente cauto e conservatore, non stava subendo uno specifico cedimento come era accaduto agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Germania, all’Irlanda, all’Islanda, alla Spagna o a Cipro. Tante rassicurazioni probabilmente sono servite a prevenire fra i risparmiatori e gli investitori lo stesso panico che in certi momenti sia era diffuso a Londra, a Dublino o anche a Madrid. In questo senso esse hanno funzionato, fino al giorno in cui non hanno funzionato più. C’è stato un momento dopo il quale le parole per tranquillizzare hanno iniziato a suonare particolarmente vuote, magari inducendo l’Italia a rinviare interventi che poi si sarebbero dimostrati inevitabili e urgenti. Il resto è cronaca di questi mesi.
Le domandeOra che la stagione delle emergenze (forse) sta finendo, e un guado rischioso si trova alle spalle, è il momento di voltarsi indietro e trarre dall’ultimo decennio la lezione numero uno: quando si parla di banche, l’inquietudine può salvarti la vita. Una modica dose di paranoia fa meglio di un eccesso di relax. Non è mai sbagliato chiedersi di continuo quali sono le domande che un sistema finanziario non si sta ponendo. Perché ce ne sono sempre. Cinque o sei anni fa esse riguardavano l’accumulazione di prestiti alle imprese avviati verso il default, un problema del quale pochi si curavano quando ancora sarebbe stato meno difficile affrontarlo.
Ma oggi? Non sembra plausibile che una soluzione il problema dei crediti deteriorati riporti l’industria bancaria al mondo che essa abitava dieci anni fa, perché probabilmente quel mondo non esiste più. C’è dunque almeno una domanda che il Paese non si sta ponendo, una volta superata la fase acuta della crisi del credito: quali sono le prossime grandi sfide che l’emergenza dei crediti in default ha tenuto finora in secondo piano?
Un confronto fra l’evoluzione del settore in Spagna e in Italia dal 2008 ne dà una misura. Negli otto anni fino al 2015, il numero delle filiali bancarie iberiche è sceso del 32% da oltre 45 mila a poco più di trentamila; in Italia nello stesso periodo è calato in proporzione di meno della metà, del 15,4%, da 33.700 a 28.500 (anche se gli accordi con la Commissione Ue per Monte dei Paschi e gli istituti veneti porteranno presto a nuove chiusure). I dati della banca centrale di Madrid e dell’ufficio studi Mediobanca mostrano tendenze simili anche sul personale occupato nel settore del credito nei due grandi Paesi mediterranei colpiti in modi e tempi diversi dalla crisi. In Spagna i dipendenti erano 270.800 nel 2008, ma erano scesi del 27% a quota 197.800 nel 2015; il settore del credito ha dunque vissuto una ristrutturazione di drammatica intensità, espellendo quasi un terzo della forza lavoro. In Italia nello stesso periodo il calo percentuale è stato di meno della metà, dell’11,5% (da 329 mila a 291.650 dipendenti).
Dunque la Spagna ha eseguito prima e più aggressivamente la stessa transizione nella quale con più cautela sta entrando adesso anche l’Italia. Ma emerge anche un’altra differenza: con ogni probabilità, ogni singolo addetto dell’industria bancaria iberica è (in media) più produttivo del suo pari grado italiano. Lo si nota dal fatto che il numero di filiali nei due Paesi è sostanzialmente simile, con un livello medio di depositi per sportello di circa venti milioni di euro in entrambi in casi. Ma in Spagna un terzo dei dipendenti in meno tiene aperte le stesse filiali e gestisce la stessa massa pro-capite di risparmio.
Proprio questa sembra la prossima domanda per il settore bancario italiano: ha davanti a sé una nuova, drammatica riduzione dei costi legati al personale? Quanti posti di lavoro è ancora destinato a perdere? A prima vista non sembra scontato che i dipendenti debbano essere ulteriormente decimati, dopo una riduzione di quasi 40 mila unità dal 2008 al 2015. A cui vanno aggiunti i recenti accordi per le uscite a Unicredit, Intesa Sanpaolo, le popolari del Veneto e i cinquemila del Monte dei Paschi. I dati di Mediobanca mostrano che dall’inizio della crisi i ricavi totali del settore del credito sono calati di circa l’otto per cento, ma il costo del lavoro è sceso di altrettanto. E comunque il personale rappresenta solo una parte della struttura delle uscite di una banca: è piuttosto il resto dei costi che non sembra calato, in base ai dati di Mediobanca, mentre le entrate venivano meno.
Il divarioPurtroppo però queste realtà non chiudono l’equazione. Uno studio del Fondo monetario internazionale, pubblicato a fine luglio, mostra come l’Italia sia in netto ritardo sul resto d’Europa nella ristrutturazione di tutta l’industria del credito. Non è tanto indicativo che la redditività risulti la peggiore dell’Unione europea nel 2015: in questi anni hanno pesato anche le svalutazioni sui vecchi crediti ed esse prima o poi finiranno.
Più preoccupante è che la struttura dei costi delle banche, in proporzione ai ricavi, sia la più alta fra tutti i Paesi (meno la Germania). Addirittura essa nel 2016 registra il maggiore aumento in Europa, sempre in relazione alle entrate. La strada della chiusura di filiali nei quartieri e nei villaggi della penisola dunque sembra purtroppo ancora lunga.
Lo studio del Fondo monetario mostra come in Italia operi uno sportello bancario ogni duemila persone circa, una delle più alte densità d’Europa. A titolo di confronto, in Olanda se ne trova uno ogni diecimila abitanti e in Grecia uno ogni cinquemila. In piena transizione verso i nuovi strumenti digitali, l’home banking o il mobile banking, per l’Italia i danni di un ritardo possono rivelarsi simili a quelli già sperimentati con i crediti in sofferenza: chi arriva da ultimo ad aggredire un problema fondamentale, subisce più duramente la concorrenza degli altri.
Se non riducono i costi, sostiene lo studio del Fondo monetario internazionale, difficilmente le banche italiane svilupperanno quella redditività dell’8-10% che serve per remunerare il capitale.
A quel punto rafforzare il patrimonio sul mercato diventerebbe più difficile. Il credito alle imprese finirebbe per costare di più, con danni per il resto dell’economia, mentre gli investimenti in tecnologia tarderebbero. I bocconi più appetibili dell’industria del credito finirebbero fatalmente in mani straniere.
È emblematica in questo la contraddizione delle 355 banche di credito cooperativo (Bcc). La Costituzione conferisce a loro il diritto storico a sgravi fiscali sui ricavi da credito, proprio per facilitare il finanziamento delle piccole imprese e delle aziende agricole. Eppure – in media – il costo dei servizi bancari delle Bcc è oggi più alto di quello delle banche costituite in società per azioni.
Senza economie di scala diventa sempre più difficile gestire un istituto moderno. L’aggregazione in corso nel mondo del credito cooperativo va dunque nella direzione che serve. Ma, messa alla spalle la saga del Monte dei Paschi e tutti gli altri drammi di questi anni, l’errore più grande ora sarebbe di pensare: missione compiuta. Essa in realtà, per l’industria del credito, è appena iniziata.