la Repubblica, 27 agosto 2017
Intervista a Livia Pomodoro
Avrei detto che incontrando Livia Pomodoro mi sarei imbattuto nella tipologia di quelle donne che hanno ottenuto tutto dalla vita. A cominciare dal potere che Livia ha esercitato con fermezza soprattutto in passato, per finire alle gratificazioni che passano attraverso una serie di incarichi con cui spende la sua autorità. «Sono stato un capo per tutta la vita e ne conosco il significato profondo», dice con convinzione brusca. È tra le altre cose, presidente dell’Accademia di Brera, nonché presidente del Teatro No’hma che lei guida (è solo un’impressione fugace) con piglio decisionista. Per tre quarti della nostra conversazione è emersa una donna tanto sicura di sé da apparirmi profondamente sola. Una solitudine, mi si passi questa sensazione arbitraria, vissuta in mezzo a decine se non centinaia di persone cui impartisce ordini e compiti. Vorrei chiamare questa storia “il complesso di Teresa”. Teresa: la sorella un po’ meno grande e un po’ più bella; un’archeologa, ma soprattutto attrice e drammaturga che dedicò tutto il suo tempo al teatro, come ci si dedica a una passione assoluta: «I complessi sono spesso nodi irrisolti, vaghi traumi di cui spesso ci si vergogna. Ma io non ho nulla da rimproverarmi. Potrei aggiungere che la mia è stata una storia di successi e di qualche assenza che ha pesato, come il vuoto lasciato da mia sorella».
Un tentativo di riempire quel vuoto è stato nel volerla “sostituire” quando è morta.
«Può darsi che sia così, del resto le sue idee mi affascinavano. Fin da piccola mi sembrava lei la più forte, la più bella, la più determinata».
Invece le cose sono andate altrimenti.
«No, no. Teresa ha realizzato ciò che ha voluto. Ha saputo fare quello che le piaceva. Voleva realizzare un teatro, questo in cui parliamo, dove gli spettatori non pagano il biglietto, perché il teatro, come la vita, appartiene a tutti. E tutti ne possono godere. Fino a che le è restato di vivere si è battuta perché a tutti fossero date le stesse opportunità culturali».
Dove è nata?
«A Molfetta, eravamo una famiglia abbastanza numerosa: cinque figli di cui tre maschi; poi arrivammo noi femmine, io e Teresa. Padre farmacista. Ho avuto un’infanzia bella, nonostante sia nata in piena guerra. Ricordo vagamente il podestà. Un uomo duro e fanatico. Prese di mira papà imponendogli i turni di notte».
Perché questo accanimento?
«Perché oltre ad essere farmacista era un uomo intelligente, visionario, ospitale. Come poteva andare d’accordo con il fascismo? Certe volte tornava per cena e poi rientrava nella farmacia. Lo guardavo uscire stanco ma con il sorriso sulle labbra. Non era felice per quella imposizione».
Questi sono i primi ricordi?
«Il primo in assoluto è una casa di campagna in una contrada di Molfetta. Gli inglesi la bruciarono, convinti che fosse la proprietà di un repubblichino. Noi eravamo in città e non potemmo difendere quello che era nostro di diritto. Malgrado questo episodio e la guerra sono stata felice e sa quando l’ho scoperto?».
Quando?
«Ero a Caracas, in missione. La sera andai a passeggiare sulla spiaggia e venni improvvisamente avvolta da centinaia di lucciole. Mi ricordai che Angelina, la nostra domestica, preparava con le lucciole delle coroncine che deponeva sulle nostre teste. Mia sorella e io sembravamo delle piccole regine, ma era solo lo stupore dell’infanzia».
Poi lo stupore finì.
«Studiammo. Teresa prese lettere classiche e una specializzazione in archeologia paleocristiana; io mi iscrissi a biologia. Uno zio magistrato mi convinse a passare a legge. Mi laureai in diritto privato internazionale. Dietro quella scelta c’era la convinzione che i diritti umani sono la nostra conquista più importante».
Le piace così com’è il genere umano?
«Non ho tesi evoluzioniste che spieghino dove l’umanità è giunta. Mi capita spesso di pensare alle cose spregevoli, volgari, violente che nel corso della storia abbiamo commesso. E allora mi chiedo da cosa dipenda questo amore per l’umanità, quanta velleità nasconde, quanta astrattezza».
Ha trovato una risposta?
«Il mio convincimento, è che si tratti del desiderio di non vedere scomparire il genere umano. Lo so, è un credo come un altro. Ma senza questa convinzione di fondo, la chiami pure idea regolativa, molto del lavoro che faccio non avrebbe senso».
Anche Dio può diventare un’idea regolativa.
«Ma io sono una giurista che ha sempre creduto nelle regole. Non le regole per le regole, ma quelle condivise. Se comprendessimo e accettassimo questo piccolo punto vivremmo molto meglio».
Cosa serve per la condivisone?
«Potrei farle un lungo elenco di motivazioni necessarie. La più importante è l’onestà intellettuale».
Concetto un po’ vago.
«All’inizio, certo, può essere frutto di un’impressione ma alla fine è pienamente verificabile sapere se davanti ho una persona perbene o no».
Lei entra in magistratura con questi ideali.
«C’entro consapevole che serva molta competenza e quella non la inventi, non ce l’hai in dote fin dall’inizio, ma anche con la convinzione che puoi laicamente impegnarti nella difesa di principi che garantiscano la nostra dignità».
Quando è entrata in magistratura?
«Avevo 24 anni, divenni magistrato effettivo nel 1965. Per un breve periodo fui assistente di Francesco Capotorti all’Istituto di diritto internazionale a Bari. Capotorti, che fu stretto collaboratore di Altiero Spinelli, lavorò con pochi altri alla stesura del progetto sul trattato dell’Unione europea. Erano uomini che inorridirebbero davanti all’attuale modestia di certe visioni».
Com’era la vita culturale a Bari?
«C’era la casa editrice Laterza che primeggiava; in quegli anni si affermò anche la De Donato. Entrambe si facevano concorrenza nel pubblicare testi marxisti. Prese vita allora quella che un po’ ironicamente e un po’ no, venne chiamata “l’école barisienne”: c’erano Beppe Vacca, Biagio De Giovanni, Franco Cassano. Presi parte a qualche riunione. Già allora si discuteva dei destini della sinistra. E non si è smesso mai di parlarne e di dividersi».
Una condanna?
«Non avevo quella familiarità teorica con i nomi che allora venivano spesi: Marx, Hegel, Gramsci. Sembravano discussioni bizantine e anche per questo quando mi si offrì l’occasione, cioè l’anno dopo, mi trasferii a Milano».
Cosa le offrivano?
«La cosa che più mi interessava: lavorare nei tribunali. Giunsi a Milano nel tardo autunno del 1966. La città era avvolta dalla nebbia. Per un attimo fui presa dallo sgomento. Poi i ritmi della città mi assorbirono. Nei momenti liberi frequentavo i miei cugini: Giò e Arnaldo Pomodoro. La sera dormivo da un’amica di mia madre; il giorno lavoravo nel gruppo di Adolfo Beria d’Argentine. Avevo contatti anche con Luigi Bianchi d’Espinosa, allora presidente del tribunale di Milano. Furono due uomini probi. Quando d’Espinosa morì mi lasciò in dote, come segno di stima, la sua toga rossa».
Di Beria d’Argentine che ricordo ha?
«Lo considero il mio vero maestro, e mi onoro di essergli stata amica. Era un uomo schivo e risoluto. I nostri rapporti si strinsero negli anni della contestazione».
Che giudizio dà del Sessantotto?
«Ne ho apprezzato il desiderio di libertà. Ogni giovane deve fare almeno una volta nella vita un’esperienza di rottura. Ma se questo deve significare buttare via tutto senza costruire niente di nuovo allora si cade nel fanatismo e nel pericolo».
E il pericolo lei come lo visse?
«Fu qualcosa di progressivo e minaccioso. Alla fine degli anni Settanta un po’ tutto il nostro gruppo, composto di gente che credeva nel riformismo, si ritrovò nel mirino del terrorismo. In una sequenza terribile Prima Linea assassinò Emilio Alessandrini e Guido Galli. Successivamente, in un covo delle Br, furono trovati dei documenti e una lista di nomi. Sul mio e su quello di Beria d’Argentine era stata fatta una croce. Cominciarono gli orrendi attacchi alla vita privata dei funzionari».
Non ha avuto paura di morire?
«Mai. So che tutti dobbiamo morire e ogni giorno può davvero essere l’ultimo, può essere la tua apocalisse. Ma questo a me dà serenità non paura».
La paura era iscritta in quegli anni di violenza quotidiana.
«Si tendeva soltanto a distruggere e credo che dipendesse molto dal fanatismo di quelle frange violente. Ordine e disordine non possono essere due variabili indipendenti. Vale per l’individuo, per la società, per la famiglia».
A un certo punto lei è diventata un’esperta del diritto di famiglia. A cosa legò quella scelta?
«Vedevo, ahimè, la progressiva distruzione del nucleo familiare. Si vagheggiava la creazione di legami comunitari, si parlava di libertà sessuale, ma era come vivere una certa immagine della realtà prescindendo dalla realtà stessa. Fu in quel clima che decisi di occuparmi del diritto di famiglia, di cui divenni grande esperta. Tutto questo è poi sfociato nel lavoro sui minori. Dal 1993 al 2007 sono stata presidente del tribunale per i minori».
Ha figli?
«No, un po’ per scelta e un po’ perché mi sono sposata che non ero più molto giovane. Potrei dirle che ogni volta che ho risolto un caso su un minore mi sono sentita anche un po’ madre».
Sa un po’ di retorica.
«Lo ammetto, ma dopotutto mi piace anche pensare di essere stata materna oltre i legami di sangue».
Suo marito che dice?
«Ci siamo sposati nel 1978 e dopo dieci anni abbiamo deciso di divorziare. Riconosco che fare il “principe consorte” con una come me era complicato».
La sua idea di servizio pubblico non l’ha mai spinta a fare politica, perché?
«Perché ho molto rispetto del servizio pubblico. E poi, in qualche modo, sono stata intrecciata con la politica svolgendo il lavoro prima di vice e poi di capo di gabinetto per due governi. Ero capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia Martelli quando ci furono le stragi di Falcone e successivamente quella di Borsellino. Furono mesi terribili. Mi ricordai di una cosa che mi disse Ciampi, quando era ancora Governatore della Banca d’Italia: Livia sono felicissimo che tu abbia avuto questo incarico, ma non ti invidio, perché le decisioni un capo le deve prendere da solo».
In cinquant’anni di magistratura si pente degli errori che ha commesso?
«Posso patirli ma non pentirmi. Ogni decisione è stata vissuta da me con responsabilità. Da questo punto di vista, rivendico perfino gli errori, perché sono stati commessi in buona fede. Questo non significa autogiustificarsi. Quando alcuni miei colleghi si stracciavano le vesti perché la sentenza era stata rivista in Cassazione, io dicevo: meno male che ci si può correggere!».
Quando ha chiuso la carriera di magistrato come si è sentita?
«Sono stati anni un po’ difficili».
E ora eccola qui in questo bel teatro.
«La prima volta che vidi questo spazio fu con mia sorella. Mi trascinò in questa palazzina dismessa che il Comune aveva adibito alla gestione dell’acqua potabile. Teresa mi disse che quello era il luogo della nascita e lì poco distante era fiorita una rosa».
Lei cosa rispose?
«La guardai stupita pensando che fosse pazza. Ma come farai a gestire una cosa del genere? Lei disse che quel gioiello di archeologia industriale era il luogo giusto per realizzare un teatro. Riusciva a vedere ciò che io non ero in grado».
Due sorelle molto diverse.
«Ero quella con l’encefalogramma piatto. E quando mia sorella si ammalò ricordo che per sdrammatizzare scherzava sulla mia intelligenza. Lo so. Non ho mai avuto il dono della creatività. Amo l’arte e quando mia sorella è morta, nell’agosto del 2008, ho scoperto improvvisamente questa passione per il teatro. È stato l’ultimo dono che mi ha fatto».
Ho l’impressione che dietro la donna di potere, che ha avuto successo, ci sia una donna sola.
«Il potere l’ho esercitato in una certa stagione della mia vita. Non mi rammarico di non averlo più in quel modo. Quanto al successo l’ho sempre vissuto come uno stimolo a quello che avrei potuto fare, più che il riconoscimento per quello che ho fatto. La solitudine, infine, più che una scelta esistenziale è una condizione di vita che non sempre scegli. A volte torno a casa la sera, dopo aver incontrato decine di persone, e mi siedo a cenare. Spesso da sola. Non mi dispiace. Capisco di non aver risposto in profondità alla sua domanda. Ma ci sono domande alle quali nessuno può dare risposte convincenti».