la Repubblica, 27 agosto 2017
Il padre di Gaia. La biografa di von Humboldt spiega come sia stato il primo a vedere la Terra come un unico organismo vivente
Qualche settimana fa, in Perù, è stata scoperta una rana che è sorella, per il nome che le hanno dato, di scoiattoli, pinguini, calamari, montagne, persino correnti oceaniche: è stata chiamata Pristimantis humboldti. Condivide con altre 100 specie animali e con 300 specie di piante l’omaggio a Alexander von Humboldt, il barone ribelle che spese tutte le sue ricchezze in un’avventurosa esplorazione in Sudamerica durata cinque anni. Fu lo scienziato più popolare e ammirato dell’Ottocento: perfino Napoleone fu invidioso del successo dei suoi libri. Oggi è dimenticato dal grande pubblico ma è ben presente nella memoria dei naturalisti. Fu il primo a vedere il pericolo dei cambiamenti climatici causati dall’uomo. E soprattutto fu il padre di una rivoluzionaria idea di natura. Lo racconta la storica e scrittrice anglotedesca Andrea Wulf ne L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander von Humboldt, l’eroe perduto della scienza (Luiss University Press).
In che senso Humboldt fu l’inventore della natura?
«Coniò un concetto che oggi condividiamo: la natura come “rete della vita”, la Terra come organismo vivente. Dove tutto è connesso, dagli insetti agli alberi, dai predatori alle prede: “Tutto è intrecciato come migliaia di fili”».
Non usò mai la parola “Dio” nei suoi scritti. Ma credeva in una sorta di “religione della natura”?
«Non si espresse mai su temi religiosi, ma subiva l’influenza del concetto di natura, fortemente spirituale, dei nativi americani e degli indigeni. Lui parla di questa forza, di qualcosa che dà vita alla natura: non personalizzò questa visione, ma qualcosa di spirituale c’era».
È curioso come nella stessa persona convivessero l’ossessione per le misurazioni e un afflato poetico verso tutti gli esseri viventi… «Per tutti gli altri questa sarebbe una contraddizione, ma per Humboldt era una sintesi. È come se avesse voluto riassumere in sé l’eterogeneità della natura, la fluidità dei viventi, il fatto che tutto è in contatto con tutto il resto. Nel 1834, riferendosi alla sua opera più ambiziosa, Cosmos, dove abbraccia l’universo dagli insetti alle stelle, Humboldt scrive: “Mi ha preso la pazza frenesia di rappresentare in un unico lavoro l’intero mondo materiale. Questo libro dovrebbe produrre un’impressione simile alla natura stessa”. Una volta una delle sue guide disse che le sue tasche sembravano quelle di un ragazzino: piene di sassolini, pianticelle, ritagli. Era scienziato e poeta, mente e cuore. La sua ossessione per saggiare e misurare era proverbiale: volle bere l’acqua di tutti i fiumi che incontrava, come un intenditore di vini. E quando nel 1802 in Ecuador scalò il Chimborazo, considerato allora la montagna più alta del mondo, mentre procedeva al gelo su un crinale stretto una manciata di centimetri, con due strapiombi ai lati ogni cento metri si fermava a misurare la temperatura, l’umidità, la pressione…».
Quando Humboldt guardava una pianta, cosa vedeva?
«La vedeva come parte di un tutto. E Humboldt sapeva arrivare al “tutto” tramite i confronti e le comparazioni: poteva permetterselo avendo visto così tanto girando il mondo».
Cos’era la natura prima di Humboldt?
«Fino al tardo ’ 700 la natura era vista come un sistema meccanico, era forte l’influenza di Cartesio che aveva descritto gli animali come automi e la natura come un congegno a orologeria. E poi c’erano botanici e naturalisti che guardavano il mondo solo attraverso la lente della classificazione, come Linneo. A loro la natura appariva soprattutto come sistema ordinato e gerarchico. Con la sua idea di natura come rete dei viventi, Humboldt è il primo ad avere una visione olistica. Darwin – che senza i libri di Humboldt, come lui stesso ammise, non sarebbe mai salito sul Beagle – perfezionerà quel concetto trasformandolo da “rete della vita” a “albero della vita”. 150 anni dopo, Lovelock con la sua Gaia riparlerà della Terra come di un unico superorganismo. Pensi che Humboldt quando si trattò di intitolare il suo capolavoro era proprio indeciso tra Cosmos e Gaia…».