la Repubblica, 27 agosto 2017
A occhi chiusi nel bosco
Tentiamo insieme una semplice esperienza: un esperimento mentale – uno di quei Gedankenexperiment (“esperimenti mentali”, appunto) tanto amati da Albert Einstein – e immaginiamo di passeggiare in un ambiente rurale. Di trovarci, insomma, in campagna, fuori da quel due per cento di superficie urbanizzata del pianeta, in cui oggi vive oltre il 50% della popolazione totale. Guardandoci intorno non vediamo niente d’inatteso. Il solito pacifico paesaggio agreste: colline, prati, boschi in diverse gradazioni di un rassicurante verde. Una piacevole sensazione di calma ci pervade. Nulla ricorda la ressa della città. Siamo praticamente soli. Fin qui tutto facile, il nostro Gedankenexperiment sta procedendo alla grande. Soffermiamo ora la nostra attenzione su quella roba verde che, in diverse sfumature, colora praticamente tutto ciò che riusciamo a vedere. Sono piante. Sì certo, direte, lo sappiamo tutti, e allora? Beh, sono tantissime. Quante? Un’enormità. È difficile calcolarlo con precisione, ma si stima, con buona approssimazione, che le piante sul nostro pianeta abbiano una biomassa mille volte superiore a quella degli animali. Mille volte di più! Ne avevate mai avuto la percezione?
Riprendiamo il nostro esperimento dove l’avevamo lasciato: dalle piante. Si tratta di esseri viventi complessi, capaci di sentire, difendersi, comunicare, memorizzare, apprendere, avere una vita sociale, ma secondo una via loro propria, differente da quella animale. Hanno un’organizzazione, un funzionamento e comportamenti così diversi da quelli degli animali che ci è, quasi, difficile percepirle come vive. Sono differenti in tutto: il loro corpo è talmente alieno, che non sono neanche considerabili degli “individui”, nel senso etimologico di “non divisibili”, perché al contrario degli animali, possono essere tranquillamente divise. Le piante sono radicate al suolo, gli animali sono mobili; le piante sono lente, gli animali sono veloci; le piante fissano l’energia del sole che gli animali consumano. Piante e animali sono il bianco e il nero, lo yin e lo yang della vita. Opposti in tutto tranne che in una cosa: nell’essere organismi intelligenti, capaci di perseguire i propri fini e di risolvere con successo i problemi dell’esistenza. Eppure guardando questo verde paesaggio, niente di tutto ciò si affaccia alla nostra mente. Abbiamo difficoltà a percepirle come esseri viventi, figuriamoci se riusciamo a immaginarcele mentre comunicano, si difendono, apprendono dagli errori o, fra vicini nei boschi, si scambiano materiali. Come mai le piante, nonostante qualunque cosa se ne possa sapere, rimangono per noi soltanto del “verde”?
La soluzione la trovarono nel 1998, due botanici americani, James Wandersee e Elizabeth Schussler, i quali dopo anni di ricerca sul campo e in archivio, si convinsero che negli uomini esistesse una reale “cecità alle piante”. La chiamarono proprio così: plant blindness definendola come “l’incapacità di vedere o notare le piante nel proprio ambiente, che porta all’impossibilità di riconoscere l’importanza delle piante nella biosfera e negli affari umani”. La cecità alle piante racchiude, inoltre, “l’inabilità di apprezzare le caratteristiche biologiche ed estetiche uniche delle piante e la sbagliata, antropocentrica, classificazione delle piante come inferiori agli animali, arrivando alla conclusione erronea che non sono degne di considerazione umana”. Mi sembra ci sia tutto. Sono sicuro che ciascuno di noi, tranne pochi fortunati, riconoscerà i sintomi della sua personale cecità alle piante. Non ne siete convinti? Pensate di guardare alle piante con lo stesso sguardo che utilizzate per gli animali? Riprendiamo, allora, il nostro Gedankenexperiment e torniamo con la mente all’ameno luogo fantastico nel bel mezzo della campagna che avevamo appena abbandonato. Ancora una volta, osserviamo. Questa volta, però, proviamo qualcosa di nuovo. Immaginiamo che al posto di ogni singolo filo d’erba ci sia un verme, uno scarabeo o un insetto di pari massa. I prati si trasformeranno così da quiete distese verdi, in un pullulare di vita strisciante. Ora al posto di ogni cespuglio sistemate un animale di dimensioni consone: un topolino, un pollo o un coniglio per i cespi più piccoli; una pecora o una capra per gli arbusti più grandi. E, infine, trasformate in asini, cavalli, mucche e in animali via via più pesanti: bufali, rinoceronti, elefanti e balene, ognuno degli infiniti alberi dei boschi. Riuscite a visualizzare questo brulicare di carne intorno a voi? State dedicando al nostro Gedankenexperiment tutta la concentrazione che si merita? Allora di sicuro vi starà mancando il respiro, così circondati da questa enorme e mai vista prima, massa di animali. Non è lo stesso effetto del piacevole verde di sottofondo di prima, vero? Trasformando la massa delle piante in una equivalente massa animale, ne sentite subito la smisurata quantità. Cecità alle piante, dunque.
Le cause sono molte. In parte dipende dalla nostra solida impostazione antropocentrica, che misura ogni creatura in funzione della sua somiglianza all’uomo. In parte riguarda l’ignoranza sulle piante che, ovviamente, ci rende impossibile comprendere ciò che non conosciamo. È, infine, legata ad una peculiarità del nostro cervello. Nel 2006, ricercatori dell’università della Pennsylvania calcolarono per la prima volta la quantità esatta di dati trasmessa dalla retina umana al cervello.
Si tratta di circa 10 milioni di bit per secondo – giusto per avere un’idea, una rete Ethernet può trasmettere informazioni tra i computer a velocità da 10 a 100 milioni di bit al secondo. Il problema nasce nell’elaborazione di questi impulsi. Il nostro cervello è in grado di estrarne soltanto 40 di bit da questi 10 milioni che arrivano per secondo; e di questi 40, soltanto 16 raggiungono la nostra attenzione consapevole. Una bella selezione – 16 su 10 milioni – governata dal nostro cervello che senza pietà elimina ogni informazione non rilevante, lasciando filtrare soltanto dati su movimenti, schemi, colori di oggetti conosciuti o che possono rappresentare una minaccia. Poiché le piante non si muovono, rimangono sempre sullo sfondo e non mangiano gli uomini, molto difficilmente ne ottengono l’attenzione.
Ignorare le piante, agli albori dell’evoluzione, ci ha permesso di utilizzare le nostre intere capacità di attenzione per controllare ciò che era davvero importante per la sopravvivenza, ossia il mondo animale. Oggi, questa stessa cecità alle piante sta dimostrandosi un problema per la nostra stessa comprensione della vita. Senza la dovuta attenzione alle piante, dalle quali dipende la vita sulla terra, è difficile immaginare una qualunque soluzione alle incombenti urgenze ambientali del pianeta. In un’epoca in cui almeno un quinto delle piante conosciute sono a rischio di estinzione, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per la vita di ogni creatura del pianeta, ogni minima scintilla di attenzione dovrebbe essere dedicata alle piante. Non possiamo più permetterci di essere ciechi alle piante. È tempo di aprire gli occhi.