la Repubblica, 27 agosto 2017
Il senso di Pavese per il tempo perduto
C’è la spiaggia, i vigneti, il sole, c’è tutta la bellezza del mondo. E la crudeltà, la violenza, la solitudine e la morte. Ma sempre, all’inizio, la festa. “A quei tempi era sempre festa”, con queste parole comincia La bella estate. La festa è dappertutto, se ne sente la musica da dietro le colline, dai cortili delle cascine e dalle sartorie, è la festa che si fa attorno a una chitarra con un po’ di vino, che va avanti tutta la notte, nelle stanze degli studentati o, appunto, sulle colline, nel calore dell’estate. Perché è anche sempre estate. O semplicemente la festa di vivere, quando si è giovani e si fa il proprio ingresso nel mondo. Ma la festa non ha luogo, oppure riesce male. La Ginia de La bella estate perde ogni illusione finché non le resta altro da fare che sprofondare nella festa pagata della prostituzione. La Rosetta di Tra donne sole incontra la morte in fondo alla sua dolce vita, mentre Clelia, una volta conseguito l’agognato successo sociale, scopre che “le cose si ottengono, ma quando non servono più”. In Pavese la festa è la forma del tragico, una forma straziante, nella quale l’immagine della felicità è lì, presente, e al contempo perduta in partenza.
Ciò che c’è di terribile nell’opera di Pavese è che il tragico sembra nascere dal funzionamento naturale della vita, dagli incidenti più ordinari, una bacinella d’acqua gettata in strada dalla finestra, il sorriso che la ragazza con cui si sta ballando indirizza a un altro uomo nella sala. Quando e se sopraggiungono, il fallimento, la violenza e la morte ne risultano quasi neutralizzati, livellati, inclusi nel corso dell’universo. Leggere Pavese significa trovarsi a un tavolino all’aperto di un bar, d’estate, con le macchine che passano, la pelle delle donne che luccica da lontano, senza sapere più bene da quanto tempo si è lì seduti, e perché. Sul giornale si parla di un attentato, di fatti di cronaca. Le cose sono lì, ma a distanza, nella loro opacità.
Non ho mai provato altrove questo strano sentimento di essere trascinata in una realtà che non potrebbe essere nient’altro rispetto a ciò che è, di cui non si può volere che sia null’altro. Effetto di una scrittura trasparente, una scrittura che non dà sfoggio di sé ma tende a far vedere o sentire. A “presentare senza descrivere”, per dirla con lo stesso Pavese. Una scrittura che mostra, senza analizzare né giudicare, che procura esattamente la sensazione procurata dalle cose nel momento in cui le si vive, prima ancora che siano interpretate dall’intelligenza e dalla memoria. In un racconto breve, Gli anni, un uomo è a letto di fianco all’amata. La sera prima lei l’ha lasciato, gli ha detto che al mattino se ne sarebbe dovuto andare. L’infelicità informe e indicibile dell’uomo è espressa soltanto attraverso i pochi scambi di battute tra i due, l’ultima colazione fatta assieme, i gesti della donna, il suo modo di limarsi le unghie. Impressione meravigliosa e desolante di un universo in cui a esistere sarebbero soltanto cose, comportamenti, sensazioni, ma non parole.
Questa disperata ricerca del reale si compie attraverso la coscienza e la sensibilità di un solo personaggio. Ci si trova rinchiusi nel presente di Ginia o del Pablo di Il compagno, e, come nella vita, si ignora ciò che accadrà in seguito, così come il senso di ciò che si sta vivendo. Ginia attraversa la sua prima estate da ragazza nel piacere e nel turbamento, senza valutare la portata dei suoi desideri, delle sue frequentazioni. Tutto ciò che c’è di ammirevole in Pavese risiede in questa sospensione del senso e in questo imprigionamento in un presente senza vie di fuga. Tecnica, se mai si può utilizzare questo termine, che rimanda a un’impossibilità di raggiungere l’Altro ( Il mestiere di vivere: “Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco”). Alla fine, ad aver senso è solo la vita vissuta, il presente accumulato, e il racconto giunto al termine. Nei testi di Pavese quasi mai succede qualcosa, c’è solo il tempo. E questo tempo conduce lentamente non tanto, come in Proust, alla rivelazione o alla conoscenza, bensì alla constatazione del fallimento, alla solitudine. Eccezionalmente, ne Il compagno, all’azione. Più spesso, alla morte.
Il 27 agosto 1950 Pavese si è suicidato in una camera d’albergo di Torino. Ho verificato – credo che si tratti di quel genere di cose che si fanno quando si ama appassionatamente l’opera di uno scrittore –, quell’anno il 27 agosto cadeva di domenica, giorno di festa.Assoluta necessità di una scrittura.