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 2017  agosto 27 Domenica calendario

L’ombra del racket, si indaga sul palazzo liberato dai rifugiati

ROMA Il punto, ora, è capire se esistesse un vero e proprio racket per sfruttare la fame di alloggi da parte dei migranti o se si trattasse solo delle regole di una comunità autogestita. La vicenda del palazzo di via Curtatone, l’edificio occupato dal 2013 da centinaia di migranti e sgomberato il 19 agosto, finisce sul tavolo della Procura di Roma. Con tre diverse inchieste. La prima è quella a carico di alcuni membri dei movimenti per la casa che avrebbero concretamente attuato l’occupazione. E nell’ambito di questo procedimento, nel 2015 è stato emesso il decreto di sequestro dello stabile che ha condotto allo sgombero.
La seconda, invece, è stata aperta subito dopo la guerriglia seguita al blitz della polizia di giovedì scorso. Durante gli scontri, due donne eritree e una somala sono state arrestate per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali: avrebbero aggredito gli agenti e lanciato oggetti contro di loro. Ieri il gip ha convalidato gli arresti e disposto che le donne fossero rimesse in libertà. E sono stati convalidati anche gli arresti di due eritrei, accusati di resistenza per aver scagliato bombole del gas contro la polizia. Per entrambi è stata poi disposta la custodia cautelare in carcere.
Ma c’è pure un terzo filone d’indagine, quello sul presunto affare degli affitti imposti a chi alloggiava nel palazzo e ai profughi che vi venivano ospitati per brevi periodi. Domani la Digos sentirà i rappresentanti della Sea, la società che ha in locazione l’edificio e che è in possesso di una serie di documenti ritrovati al suo interno nelle ore successive allo sgombero. Gli operai e l’avvocato incaricati dalla società di effettuare una ricognizione in via Curtatone avrebbero trovato nelle stanze ricevute di pagamenti e un pc con un programma per compilare badge per l’ingresso. Di qui, l’ipotesi che l’occupazione fosse organizzata: i rifugiati che vivevano lì stabilmente avrebbero pagato un affitto, mentre sarebbe stato fissato un tariffario per le persone in transito. Non solo. Dalla Sea fanno sapere che, sempre giovedì pomeriggio, un somalo avrebbe chiesto di poter rientrare nel suo alloggio per recuperare una borsa. Avrebbe poi spiegato che lì dentro c’erano 13mila euro. I magistrati di piazzale Clodio dovranno adesso chiarire da dove arrivino quelle somme.
Gli ex occupanti, però, smentiscono con forza questa ricostruzione dei fatti. Non negano che il numero degli abitanti oscillasse e aumentasse in concomitanza con gli sbarchi di eritrei o etiopi in Italia. Ma – dicono – «non avremmo mai potuto lasciare per strada i nostri connazionali. Se c’era spazio, ospitavamo chi ne aveva bisogno». E spiegano che, come in tutte le occupazioni, esisteva una sorta di cassa comune a cui attingere per pulizie e manutenzione dell’edificio. «Facevamo turni di tre mesi per pagare le quote», dice una donna, mentre un ragazzo replica: «In ogni piano ci organizzavamo a seconda delle necessità. Contribuiva chi poteva». La maggior parte di loro, infatti, lavora nel settore della logistica e delle pulizie, ma gli stipendi sono troppo bassi per potersi permettere un affitto.
Intanto, da una nota pubblicata dalla Prefettura di Roma lo scorso 14 marzo, si apprende che Idea Fimit, la società immobiliare proprietaria del palazzo, è stata scelta per affittare allo Stato i locali in cui creare un nuovo hub per migranti a Massimina, periferia nordovest della Capitale.