la Repubblica, 28 agosto 2017
Nanni Svampa o l’artista totale
Forse tra dieci o trent’anni qualcuno riconoscerà tutti i meriti di un artista totale, capace di andare ben oltre la milanesità, qual è stato Nanni Svampa. Totale perché s’è impegnato nel cinema (una dozzina di film), nel teatro (regie al Piccolo), nello spettacolo musicale. Prima con i Gufi, quartetto quasi interamente lombardo: di Milano Gianni Magni, Roberto Brivio e Svampa, che aveva radici nel Maceratese, di Crotone Lino Patruno. Poi in trio con Lino Patruno e Franca Mazzola, poi da solo o con chiunque avesse voglia di cantare (sano concetto da osteria). Divertendosi e divertendo, sceneggiando le canzoni come il Quartetto Cetra ma con una più spiccata vena cabarettistica, i Gufi in bombetta e calzamaglia nera s’ispiravano alla Francia e passavano dal filone detto cimiteriale ( Vorrei tanto suicidarmi, Quando sarò morto) all’umorismo surreale ( Si chiamava Ambroeus), dalla satira sociale ( Io vado in banca) a quella politica (I teddy boys, Socialista che va a Roma), dalla canzone dialettale lombarda a quella dialettale parodiata ( Ballata dellu calciaturi di palluni), da quelle della Resistenza (tutto un 33 giri) a quelle politiche ( Si può morire, Non maledire questo nostro tempo) a quelle antimilitariste ( Non spingete, scappiamo anche noi). Nanni aveva una voce duttile, buona per tutti i registri: dalla solenne tristezza di Donne di piacer e Pover Martin alle più scollacciate canzoni da osteria. Nel ’78 si definiva così: «Ho 40 anni, sono ateo da 25, non digerisco i digestivi, mi piace la testina di vitello e il Barbera di 16 gradi, sono anticlericale viscerale e non riesco a smettere di fumare».
Ma poi aveva smesso, col cuore ballerino e tanti bypass in corpo. Una brutta caduta gli aveva reso incerti i movimenti. Ero stato a casa di Nanni, a Portovaltravaglia (dove sarà sepolto) prima dell’estate, con Claudio Sanfilippo, cantautore milanese, che lo venerava come un maestro. La moglie Dina, la donna della sua vita, aveva cucinato un risotto, Nanni dei cavedani, e rimpiangeva i tempi in cui usciva in barca per andare a pesca, e non a piedi per andare in pescheria. Prima il piacere poi il lavoro, ma il vino (bianco) già denotava uno stare poco bene.
Aveva in mente Ratatouille, uno spettacolo con lui sul palco a raccontare (barzellette, aneddoti, ricordi, battute come Alla Bocconi andavo a spizzichi), più un chitarrista (Flavio Oreglio) e due ragazzi a cantare le sue canzoni. Ci era sembrato un leone stanco, ma non rassegnato. Sapevamo da tempo della sua spina. Sperava che la città di Milano dedicasse spazio e tempo alla sua storia musicale, si sentiva emarginato. Per fare uno spettacolo lo chiamavano solo i leghisti «ma a parte il dialetto non abbiamo nulla in comune». Il dialetto: 12 album di canzoni lombarde, un immenso lavoro filologico e di ricerca. E ancora il dialetto per tradurre Brassens. «Sono più belle le sue traduzioni delle mie canzoni», disse Brassens, perché tra grandi ci si annusa e ci si capisce.
Quella Milano (dei Gufi, di Svampa, ma anche di Gaber, di Jannacci, di Fo) non c’è più e non tornerà. Svampa era nato a Porta Venezia quando c’erano le case di ringhiera, alla Bocconi s’era laureato solo per fare contento il padre ragioniere. Aveva occhiaie da nottambulo, la battuta sempre in canna e un gran cuore.