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 2017  agosto 28 Lunedì calendario

Io e la Londra di Virginia Woolf c’eravamo tanto amate

«Mi piace passeggiare per Londra», disse la signora Dalloway. «Sul serio, è meglio che passeggiare in campagna». Ho sempre pensato che questa frase pronunciata da Clarissa Dalloway mentre è per strada alla ricerca di fiori fosse un eufemismo. Se avessi avuto l’occasione di tradurre Mrs Dalloway in italiano, avrei optato per “Amo passeggiare per Londra”, niente di meno: per rispettare l’ossessione innamorata e devastante di Woolf per la sua città, e la sua spossante ricerca di anonimato e presenza.
Una riflessione che torna alla mente ora che Bompiani pubblica una raccolta di appunti e saggi che Virginia dedicò alla capitale inglese ( Londra, Bompiani, con la cura e la traduzione di Mario Fortunato, pagg. 188, euro 12). A ventidue anni, lei e sua sorella Vanessa si trasferirono al 46 di Gordon Square a Bloomsbury, il che non avrebbe significato molto se prima non avessero abitato al 22 di Hyde Park Gate: dalla casa di famiglia in un quartiere pomposo e antico – «l’opulenta penombra rosso scuro di Hyde Gate Park» – le ragazze passano a quello che nell’ottobre del 1904 «era il posto più bello, eccitante e romantico del mondo», almeno stando agli appunti della scrittrice. Non dell’Inghilterra: del mondo.
Quando ci sono stata la prima volta avevo poco più di vent’anni, ed era un quartiere accademico ed elegante da parecchio, organizzato dagli spettri addomesticati del Bloomsbury Group. Mi piace pensare di aver individuato la casa di Virginia Woolf al primo colpo, senza neanche consultare la mappa o sollevare lo sguardo per trovare il medaglione ceruleo che avrebbe riportato il suo nome e dato delle conferme a me, una ragazza che voleva fare della sua vita una città – caotica, contraddittoria, difforme – e di una città la sua vita, per amore della sua storia e di una scrittrice che l’aveva abitata. E probabilmente è andata così, l’ho trovata al primo tentativo, eppure quando mi sono seduta su quei gradini, non mi sono sentita trafitta da una rivelazione, in maniera simile a Geoff Dyer quando è andato ad Algeri per prestare omaggio a Camus: «Sono qui troppo tardi: rispetto all’ora del giorno, all’anno, al secolo…».
Spesso, le convinzioni più belle nascono da errori: tra gli elementi ricorrenti del paesaggio urbano ci sono i desire path, quei solchi che si creano nei parchi o sulle strade per effetto di erosione, dato che sono il percorso più battuto e spesso più breve per andare da un posto all’altro. Prima di scoprire cosa fosse davvero, per me un desire path era un tentativo da parte di chi costruisce la città di immaginare dove le persone avranno voglia di passeggiare, perdersi o infilarsi: era un’anticipazione del loro desiderio. Non solo: nel mio errore, pensavo che i miei desire path a Londra fossero stati congetturati dalla letteratura, e che a disegnarli fosse stata Virginia Woolf.
Quando ho provato a riscrivere le sue traiettorie, sono andata incontro a dei fallimenti strutturali, barattando la nostalgia per quell’Inghilterra con un amore necessario verso il mio tempo: anche quando sono andata in un negozio di bricolage e ho scovato un catalogo di vernici in cui si raccomandava di combinare il verde salvia con il rosa antico per un «Effetto Bloomsbury, elegante e decadente»; anche quando un amico è andato a fare un colloquio per ottenere un appartamento a Shoreditch – una zona che Virginia Woolf avrebbe prima apprezzato e poi disconosciuto – e non gli hanno chiesto quanto guadagnasse, ma che libri leggesse e se era disposto a fare vita comune con gli altri inquilini perché erano tutti creativi, ambientalisti e pieni di risentimento verso le persone solitarie, e mi sono resa conto che qualsiasi circolo culturale stessimo cercando di immaginare, qualcuno aveva cercato di vendercelo ancor prima che potessimo formarlo.
L’euforia woolfiana di Londra è un’euforia resa possibile dalle perdite e delle partenze: la sua Londra esiste anche per le ore che la separano dalla campagna, dal trambusto del treno che da King’s Cross la porta a Rodmell, quando le ferite di una città crepata dalle bombe e dalla guerra si trasferiscono nel suo corpo, e la moltitudine di voci nelle strade si trasformano in echi nella sua testa, guidandola verso quella morte acquatica e silvana che le è capitata. Chi passa per King’s Cross oggi non pensa tanto ai treni che portavano Woolf in campagna quanto ai complessi di lusso in costruzione, che stanno trasformando il quartiere delle vecchie stazioni e dei mulini in una sorta di gated community camuffata, in cui gli appartamenti con le piscine e le serre disegnati sui tendoni plastificati che ne promuovono la vendita sono fantascienze dell’infrastruttura che nessuno vedrà dall’interno, costruite con lo specifico obiettivo di restare vuote e dimostrare che Londra può contenere tutto, anche l’impossibile.
Ma non è passeggiando in questo deserto di vetro che ho misurato la distanza dalla Londra di Woolf e quella del mio tempo, dalla ragazza che lei era e quella che si trasferirà qui convinta che si tratti ancora del posto più romantico ed eccitante del mondo. È successo ad Hamsptead Heath di recente: «Le abitazioni, alla luce dei fanali, sono di vecchi mattoni rossi, e riparate dagli alberi. Le signorine Cases vivono in cima alla collina, e quando il tempo è buono hanno una bella vista. La loro casa non è antica, ma fa molto Hampstead; i mobili hanno qualcosa di vivace, come se l’aria di lassù non li rovinasse» scriveva Woolf in un saggio dell’epoca. Oggi sembra tutto uguale: è una zona ancora silenziosa e ricca, fatta di rosso mattone e piante rampicanti strane, ma Hampstead rivela come si è trasformato il privilegio, e cosa vuole la città adesso: non la possibilità di andare avanti, quanto il diritto di poter restare indietro, di farsi isola, di separarsi da tutto il resto, anche dalla storia.
Per Woolf Londra era isole di luce e lunghe chiazze d’ombra, un posto in cui gli unici angoli tranquilli erano già i cimiteri ma non c’era da dispiacersene, la città era lo spirito del suo tempo e forse lo è ancora: ma non è un tempo moderno, di luci o possibilità, quanto l’espressione di una cadenza all’interno di una Campana di vetro – altro romanzo, altra ragazza, altra città —, dove le luci tremano per asfissia. Hanno un bagliore bellissimo, sufficiente per attirare un’altra scrittrice e la sua storia di adattamento, desiderio e aspirazione, ma se a Woolf è toccato descrive il fulgore degli inizi – di un Novecento caleidoscopico che le si rompeva addosso – a qualcun’altra toccherà descrivere il malinconico e consapevole ritirarsi di una città che non coincide più con un destino.