Corriere della Sera, 28 agosto 2017
Io che volevo essere il mostro
Thomas Quick è il nome che si sceglie nel 1991 quando entra, a 41 anni, nell’ospedale psichiatrico di Säter – 200 chilometri a nord di Stoccolma. Ci viene mandato dopo una rapina, compiuta travestito da Babbo Natale. È lui stesso – precedenti per droga, molestie, il trauma di un compagno morto impiccato – a supplicare il giudice di andare in clinica.
Quick, come il cognome della madre; Thomas, come il nome della sua prima vittima, un quattordicenne violentato e ucciso quando aveva più o meno la stessa età. Un brutale omicidio per il quale Sture Bergwall, il suo vero nome, non sarà mai processato: lo confesserà a termini di prescrizione già scaduti.
Bergwall/Quick è un uomo profondamente solo che ha sempre tenuta nascosta la sua omosessualità ai genitori, ferventi pentecostali. Ricoverato a Säter, si sente un fallito pure come paziente. Fino a quando comincia a ricordare – e a raccontare – le molestie del padre, conquistandosi l’attenzione degli psichiatri.
Le confessioni di un mostroUn giorno nel 1992, durante una passeggiata, si rivolge all’infermiera che lo accompagna: «Cosa succederebbe se confessassi qualcosa di terribile?». Il primo omicidio che ammette è la soluzione di uno dei grandi misteri svedesi: la scomparsa nel 1980 di Johan Asplund, 11 anni, il cui cadavere non era mai stato ritrovato. Le parti smembrate del corpo le aveva sepolte in luoghi diversi, alcune le aveva mangiate. Therese Johannesen, 9 anni, l’aveva uccisa nel 1988 a Drammen, in Norvegia, fracassandole il cranio contro una pietra. Poi l’aveva fatta a pezzi.
In tv passano le immagini di questo uomo alto, con gli occhiali, mentre nella foresta, circondato da poliziotti, psicoterapeuti e giornalisti, prova a localizzare i resti della piccola. A un certo punto lo si vede indicare un laghetto semi ghiacciato: la polizia impiega settimane a setacciarlo – 35 milioni di litri d’acqua pompati e filtrati due volte – senza trovare nulla. Se non, poco lontano, un piccolissimo pezzetto di osso che a processo un esperto certificherà appartenere a un essere umano, tra i 5 e i 15 anni.
I delitti raccontati da Quick saranno una trentina. Per 8 viene processato e condannato: i due bimbi, Johan e Therese; Charles Zelmanovits, 15 anni, che nel lontano 1976 aveva caricato in macchina a Piteå, e del cui corpo senza vita aveva continuato ad abusare; la diciassettenne Trine Jensen, violentata e strozzata con la tracolla della borsa nel 1981, a Oslo, come la prostituta Gry Storvik, 4 anni dopo; i turisti olandesi Marinus e Janny Stegehuis, nel 1984, trafitti da decine di pugnalate attraverso il telo della tenda nella quale campeggiavano accanto al lago di Appojaure; e infine Yenon Levi, studente israeliano in visita ad alcuni parenti nel 1988, rapito e ammazzato in una foresta della contea di Dalarna.
A ogni confessione seguono spedizioni sui luoghi dei crimini. Quick vaga con lo sguardo perso, piange, urla, si butta per terra. Le incongruenze nelle sue ricostruzioni, pur numerose, non turbano gli inquirenti. Il procuratore Christer van der Kwast è convinto: il paziente di Säter offre dettagli che solo l’assassino può conoscere. Per anni, e senza un copione preciso, Quick ha colpito indisturbato in tutta la penisola. È il primo serial killer svedese, l’archetipo del mostro.
Eppure qualcuno, persino tra i parenti delle vittime, nutre dei dubbi. A parte le confessioni, ci sono solo prove indiziarie. Quick si irrita al punto che nel 2001 annuncia: «Starò in silenzio per il resto della mia vita». E si riprende il suo nome, Sture Bergwall. Non collabora più, è stufo di affrontare gli scettici.
È il 2 giugno 2008 quando il giornalista Hannes Råstam ottiene un incontro con Bergwall, il primo dopo 7 anni di silenzio. «Quando arrivai al controllo dell’ospedale tremavo per l’agitazione – racconta —. Seguii in silenzio il passo deciso della mia accompagnatrice attraverso un groviglio di corridoi, scale, ascensori». Arrivato nella stanza gli passano una scatoletta nera: è un pulsante antipanico. Sembra di vedere Jodie Foster prepararsi al faccia a faccia con Hannibal Lecter. Anche l’uomo che Råstam si ritrova davanti è gentile, pacato, come Anthony Hopkins nel Silenzio degli innocenti. Ma invece di un genio del male, gli sembra soltanto un povero pazzo.
Uscito da Säter, Råstam si butta a capofitto nel caso: parla con inquirenti e psicologi, rivede ore di filmati. A settembre torna da Bergwall, convinto che la storia del mostro non stia in piedi. L’internato lo guarda con aria disperata: «Ma se non fossi stato io a commettere quegli omicidi, cosa dovrei fare?».
Dopo le prime sedute in cui aveva ricordato le molestie infantili, nel 1992 Quick era stato trasferito nel famoso reparto 36, gestito da un gruppo di psicologi d’avanguardia. In sostanza – era il credo di quella che i detrattori definivano «la setta» – i criminali non farebbero che ricreare abusi subiti da piccoli e poi rimossi: rievocandoli è possibile fermare la violenza. Il guaio è che per farli parlare, i pazienti venivano imbottiti di medicinali. Quick assumeva Valium, Xanax, Roipnol in dosi che avrebbero steso un cavallo. «Più raccontavo più benzodiazepine mi davano. E più ne ingurgitavo, più cose avevo da raccontare».
Ma da dove arrivavano tutte le informazioni con cui aveva beffato gli inquirenti? Dalla biblioteca nazionale di Stoccolma, che poteva visitare liberamente e dove leggeva i rapporti sugli omicidi irrisolti e li rimodellava. Il resto lo desumeva dal modo in cui venivano formulate le domande, e qualche nota pulp la prendeva da libri come American Psycho, che proprio i medici gli consigliavano. Le incongruenze? Tutte giustificate con la difficoltà di far riemergere il passato. I capelli di Therese erano neri, non biondi? Vedeva le cose dolorose come in un negativo fotografico, era la spiegazione.
Due libri e un epilogoIl documentario di Råstam viene trasmesso in tv nel dicembre 2008. La Svezia resta senza parole. Il giornalista si mette a lavorare a un libro ( Quick. Il caso del serial killer sbagliato, in Italia è edito da Rizzoli), smontando anche le ultime prove (il famoso frammento di ossa? Un pezzetto di legno e colla, stabilirà una nuova perizia). Tutte le condanne vengono annullate, mentre esplode la rabbia dei parenti delle vittime, che non conosceranno i veri colpevoli. Nel 2014, a 23 anni dall’inizio di questa storia, Bergwall esce dalla clinica di Säter da uomo libero. Il giornalista che grazie a un’intuizione geniale – e ad anni di lavoro testardo – gli ha aperto le chiavi della cella, però non c’è: il giorno dopo aver terminato il suo manoscritto, Hannes Råstam è morto per un tumore al pancreas.
Oggi l’uomo che un tempo fu Thomas Quick vive ad Are, un villaggio di montagna a 350 chilometri dal circolo artico, dove si gode lunghe passeggiate, spesso documentate sul suo profilo Instagram. Ha scritto la sua ultima confessione, un libro di 600 pagine uscito in Svezia l’autunno scorso: Solo io so chi sono. Qualche mese fa ha raccolto le migliaia di pagine di cartelle cliniche che lo riguardavano e le ha bruciate.