La Stampa, 28 agosto 2017
L’Italia ritorna nel tempio. Marco Tardelli: «Il Bernabeu è per sempre. Ora riesco a rivedere l’urlo». Sabato la prima partita nello stadio Mundial dopo 35 anni
Trentacinque anni e 53 giorni dall’ultima volta dell’Italia al Bernabeu. E sentirseli volare via a poco a poco, chi scrive e chi racconta, mano a mano che i ricordi di quella nottata interminabile si fanno strada e poi tornano a stagliarsi nella cornice che fu la leggenda di una generazione. Ciascuno di noi continua a sapere e mai dimenticherà dov’era quella sera, in compagnia di chi, e quanto e come perse la testa nell’attimo in cui un signore brasiliano col fischietto decretò la fine di Italia-Germania. Figurarsi chi stava su quel prato con la gola in fiamme per aver lanciato una ventina di minuti prima l’urlo più lungo e più celebre dell’intera storia del calcio. E insieme chi, nel suo piccolo, era piazzato qualche metro più su, in una tribuna stampa supplementare sovrastata da quella d’onore dove a urlare quasi altrettanto forte era un galantuomo antico a nome Sandro Pertini.
Ci è tornato due volte, Marco Tardelli, sul luogo del trionfo. La prima l’ha rimossa, perché perse di brutto con la maglia dell’Inter. La seconda la centellinò passo dopo passo, all’alba del nuovo millennio, quando una tv spagnola lo invitò a rievocare quell’11 luglio di quasi vent’anni prima. «Una passeggiata sul prato della cattedrale, ancora più gigantesca, più incombente senza la folla. In un silenzio così solenne da togliere il respiro, tanto che faticai a riempirlo di ricordi e di emozioni».
GARANZINI
Forse l’unica era cacciare un altro urlo.
TARDELLI
«Per fortuna non me lo chiesero. Ma gli avrei detto di no, era ancora l’epoca in cui mi ero stufato di vederlo e faticavo ad accettare di essermi lasciato andare a quel modo. Oggi, quando accade, lo rivedo in serenità, senza più stare a domandarmi se non sarebbe stato il caso di farne a meno».
G.
Anche perché non credo fosse un’esultanza studiata a tavolino, come i trenini o le esibizioni di tatuaggi.
T.
«Proprio no. Fu un gesto liberatorio, irrefrenabile, un’apnea. Rivissi in quel lungo istante tutta la mia vita calcistica, da quando i miei genitori si erano messi di traverso perché non volevano mi dedicassi al calcio, fino alle tensioni della sera prima, anzi della notte prima, passata come sempre nella vana ricerca del sonno in compagnia di Bearzot, che era il vecchio coyote così come Bruno Conti ed io eravamo i giovani. Passando attraverso altri momenti che avevo sempre un po’ faticato a digerire».
G.
Tipo?
T.
«Tipo la rivincita, la più grande possibile, contro chi non aveva creduto in me, nelle mie possibilità. Tutti i provini in cui ero stato respinto, dalla Fiorentina, dal Torino, e poi Bologna, Milan, Varese. Ero troppo magro per tutti, per uno a Varese addirittura ero fisicamente zero e mentre correvo urlando con le braccia al cielo il fumetto dentro di me era “guardate un po’, stronzi, che cosa ha combinato il magrolino”».
G.
Se la dedica era anche agli stronzi, immagino fossimo compresi noi appollaiati in tribuna stampa.
T
«Secondo te no? Anche se non tutti, con qualcuno c’era persino un buon rapporto, gli altri, diciamo pure la maggioranza, meglio perderli che trovarli, di sicuro in quel momento».
G.
Torniamo indietro di qualche secondo, azioniamo la Var, con rispetto parlando. Mentre Scirea e Bergomi palleggiavano serenamente nell’area della Germania, sull’uno a zero e a venti minuti dalla fine a proposito di Italia difensivista, tu dov’eri piazzato prima di farti vedere al limite dell’area? Dove stava Tardelli un istante prima di diventare Munch?
T.
«Bella domanda, perché Bergomi e Scirea andavano avanti da un po’ e nelle immagini mi si vede sbucare all’improvviso. Ero rimasto più indietro, a coprire, perché con il gioco di inserimenti che voleva Bearzot chiunque poteva infilarsi, a patto che qualcuno si fermasse a garantire gli equilibri. In quell’Italia anche lo stopper doveva saper giocare a calcio, come faceva Collovati e prima di lui, in Argentina, Bellugi che coi piedi ci sapeva fare. Mentre il vero regista era il libero, che era un campione come Scirea capace di garantire gli equilibri e dettare i tempi. E trasmettere calma anche a chi, come me, calmo non era. Come tanti anni più tardi Pirlo, sia pur con caratteristiche diverse e altri compiti da assolvere».
G.
Che festa ci fu in spogliatoio?
T.
«Poca roba, proprio poca. La festa c’era già stata sul prato, prima e dopo la consegna della Coppa. Tutti insieme, chi aveva giocato e chi no, chi era stato protagonista sul campo e chi altrettanto prezioso in quel mese e passa di convivenza e di bufera, prima che scattasse la fase del cammino trionfale. Quel Mondiale lo vincemmo davvero tutti insieme, guidati da quell’uomo straordinario che era Enzo Bearzot».
G.
Salì le scale in mezzo a voi, ricordo che provai a salutarlo quando passò a un metro dallo strapuntino su cui ero piazzato. Mi guardò ma non mi vide, era trasfigurato.
T.
«È la parola giusta, trasfigurato. Perché aveva assorbito su di sé tutte le tensioni, cercando di scaricarle da noi. E quando tutto finì era davvero esausto».
G.
Ma in spogliatoio vennero a far festa anche quei papaveri che nei momenti difficili vi avevano criticato? O gli era bastata l’accoglienza che riservaste loro dopo aver battuto il Brasile?
T.
«Sinceramente non ricordo. Mentre ricordo bene il dopo-Brasile».
G.
Quando persino Zoff, vedendo entrare Matarrese felice come una Pasqua, disse una cosa tipo «Ma oggi qui dentro entrano proprio tutti». E altri, mi risulta, furono leggermente più grevi.
T.
«Ah sì? Beh, qualcosa mi pare di ricordare. Ne avevamo ingoiate tante, era inevitabile che qualcosa dovessimo restituire».
G.
Tornaste con la Coppa all’hotel Alameda, a due passi dall’aeroporto. E un po’ alla volta, alla spicciolata, arrivammo noi giovani cronisti anche se, ufficialmente, il silenzio-stampa non era stato revocato. Ma non subimmo il trattamento-Matarrese.
T.
«Avevamo cenato tutti insieme, poi scattò il rompete le righe. Ma nessuno andò in cerca di discoteche o chissà che, ci spargemmo per l’albergo a goderci tutti insieme la bellezza di un momento che, già ce ne rendevamo conto vivendolo, non sarebbe più tornato. Nessuno aveva sonno, nemmeno Scirea che pure sembrava reduce da una passeggiata di salute o da una partita qualunque, di routine. Ricordo che dopo un po’ salii in camera con Rossi e Cabrini e andammo avanti a sparare, come dire, sciocchezze, per tutta la notte».
G.
Sinché ad un certo punto cominciaste a giocare col telefono.
T.
«Anche questa sai? Fu Paolo a cominciare, svegliammo un bel po’ di gente, lui era bravo a parlare in un finto giapponese che faceva molto ridere noi e imbestialire quelli che stavano dall’altro capo del filo. Io avevo 28 anni, Rossi 26, Cabrini 25, eravamo ragazzi che si difendevano dalla clausura con carte, ping-pong e qualche scherzo imbecille ogni tanto».
G.
Bei tempi.
T.
«Proprio belli. Che nessuno ce li toglierà mai».