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 2017  agosto 28 Lunedì calendario

Tweet, clown e vendette. Così Stephen King sfida il «presidente da incubo»: non vedrai i miei film

Prima lo choc e il terrore, anche se ha raccontato che negli ultimi giorni di campagna elettorale se l’aspettava, poi l’ironia, come arma migliore per affrontare quella che per uno dei più grandi – e più prolifici, e più venduti (350 milioni di copie nel mondo) – scrittori americani viventi è una presidenza da incubo. E Stephen King di orrore se ne intende. Per mesi dalla sua casa di Bangor, in Maine, Stato dove è nato quasi 70 anni fa – ha punto Donald Trump con i suoi tweet. A marzo, giocando con i toni complottisti che il presidente ha sempre usato per attaccare Barack Obama (dalla teoria che fosse nato all’estero alle accuse di averlo spiato), ha scritto, con tanto di maiuscolo per cui il presidente va pazzo: «Trump deve sapere che OBAMA NON HA MAI LASCIATO LA CASA BIANCA! È nell’armadio! E HA DELLE FORBICI!».
The Donald, noto per non avere un grande senso dell’umorismo e pochissima tolleranza nei confronti delle critiche, non l’ha presa bene, e così a giugno, dopo l’ennesima stilettata di King, l’ha aggiunto alla lunghissima lista di utenti da lui bloccati su Twitter. «Potrei uccidermi», la replica dello scrittore, che però ha aspettato finora per servire al presidente la sua vendetta (virtuale): «Donald Trump mi ha bloccato. Di conseguenza io gli impedisco di vedere IT o Mr Mercedes. Niente clown per te, Donald». Il riferimento è agli ultimi due degli innumerevoli adattamenti nati dai suoi 54 romanzi (alcuni scritti con lo pseudonimo Richard Bachman) e 200 short stories: il primo è un film che sarà nelle sale americane l’8 settembre (in Italia a metà ottobre); il secondo una serie tv. Il clown è il Pennywise di «It», incubo e fascinazione per generazioni di amanti di quello che è considerato il capolavoro di King. Difficile dire se Trump lo conosca, considerato che il presidente non passa per essere un gran lettore (anche se ieri sul suo profilo, nel pieno dell’emergenza uragano, ha promosso il libro di David Clarke, sceriffo africano duro e puro modello Arpaio). King ha debuttato su Twitter nel 2013 con grande timidezza: «Alla fine sono su Twitter e non riesco a pensare a nulla da scrivere. Bello scrittore che sono». Ma si è subito ripreso, diventando produttivo con i tweet quasi quanto con i libri, usandoli spesso per promuovere film e romanzi di colleghi (anche quando lo inquadrano allo stadio, dove va a vedere gli amati Red Sox, nelle pause ha spesso un libro in mano) ma molto anche per parlare di politica. Al punto da aver dovuto smentire, un paio di anni fa, la voce che volesse candidarsi a governatore.
Se il dibattito sull’horror come genere conservatore (in quanto tifa per il ritorno alla normalità e allo status quo) è ancora aperto, sulle credenziali liberal di King non ci sono dubbi. Grande sostenitore di Obama, da lui ha ricevuto la National Medal of Arts per la capacità di «abbinare la maestria nel raccontare storie con l’acuta analisi della natura umana». Nel 2008, parlando a un gruppo di liceali, si attira gli strali dei siti conservatori e una risposta piccata dell’Us Army per aver detto che leggere consente di trovarsi un lavoro mentre «se non leggi allora ti resta l’esercito, l’Iraq, non so, cose del genere».
In campagna elettorale l’anno scorso ha unito la sua firma a quella di un gruppo di più di 400 scrittori, da David Eggers a Junot Diaz, che si opponevano alla candidatura di Trump sostenendo che facesse appello «agli elementi più oscuri della società americana». Così quando il tycoon vince, si fa prendere dallo sconforto: «Niente più consigli di lettura, politica o foto divertenti del cane (un altro classico della sua timeline, ndr) per il prossimo futuro – scrive – Cesso l’attività». Ma il blackout dura meno di due settimane.