Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 28 Lunedì calendario

Emanuele Trevi: «Traffico, trasporti pubblici e movida. Capitale accogliente? No, è una città brutale»

Emanuele Trevi è cresciuto a Roma, ne ha scritto sia da un punto di vista saggistico sia con la sua tipica formula del romanzo spurio, tra narrazione, memoria ed esplorazione (per esempio in «Qualcosa di scritto», Ponte alle Grazie, o «Senza verso», Laterza), e sta continuando a farlo, nel nuovo libro che dedicherà alla poetessa Amelia Rosselli e ai vicoli intorno a piazza Navona com’erano negli Anni Sessanta e Settanta. «Quelli che per la mia generazione, parlo di me ma il discorso può valere anche per Edoardo Albinati – erano un Paradiso». E ora? «Ora Roma è un luogo che non esiste più. Una città invivibile».
Che si può riassumere nello spettacolo poco edificante di piazza Indipendenza?
«Non solo. Roma ormai non può essere nemmeno pensata come la fine di una città solidale e accogliente, se non mettendo insieme molti episodi che la cronaca elenca ogni volta, ma non connette. Presi uno alla volta non dicono tutto. Sono solo azioni e reazioni. Così oggi si parla dello sgombero degli eritrei, e scattano reazioni in nome della solidarietà. Ma ieri e l’altro ieri e il mese scorso e l’anno prima c’era e c’è, meno sottolineato, il sequestro di persona, anzi di migliaia di famiglie, per opera della movida nel centro storico; e mettiamoci anche l’impossibilità di affidarsi a un mezzo pubblico. Mi è capitato di recente di sentirmi male. Ho preferito andare al pronto soccorso in moto, perché con l’ambulanza, nel traffico, chissà se ci sarei mai arrivato in tempo. Questa è Roma, oggi. Non la fine dell’accoglienza, ma un sistema collassato».
In un suo articolo di qualche anno fa parlava di una sorta di nulla. «Quel nulla che da sempre sostiene la città, quel nulla che sta dietro la maschera di ogni segreto...».
«Posso aggiungere molti altri elementi: quest’anno abbiamo assistito a dieci giorni di sciopero dei taxi, a un sistema idrico che si blocca anche solo per una normalissima pioggia, e via continuando. Lo sgombero di piazza Indipendenza è solo una faccia dell’ordinaria brutalità di questa città. Alla quale, aggiungo, un ceto politico populista era proprio ciò che meno serviva».
La goccia che ha fatto traboccare il vaso?
«Sono stato attaccato per averlo scritto sul Corriere. Ma il caso delle Olimpiadi è straordinariamente significativo. Quando mai una capitale rinuncia a un progetto di questa portata in nome di qualche slogan? È un segnale terribile».
In che senso?
«Se dici che in otto anni, otto anni sono due mandati presidenziali negli Stati Uniti, non avrai la possibilità di vincere la corruzione, ragion per cui preferisci rinunciare subito, dai ai cittadini un segnale di resa. Getti un ordigno tra la gente, un ordigno ad alto potenziale di scoraggiamento».
Anche questa è un segno di incapacità di accogliere? Sempre più percepito dalla gente?
«Persino il Giubileo è stato un flop. Non era mai accaduto. Gli scrittori della mia età (e cioè sulla cinquantina, n.d.r.) hanno conosciuto un posto che era talmente un paradiso da rendere straziante ogni raffronto. Sto lavorando al mio libro, ma se quei vicoli dovessi cercarli oggi, nella realtà, non li troverei più. A Roma ce n’è per tutti: si tratti di prendere un mezzo pubblico, di portare i figli a scuola, di andare al lavoro o di essere soccorsi per strada. E in più c’è stato ora il dramma dei rifugiati. Ma in un posto così sinistramente lasciato a se stesso da un ceto politico che cerca solo pubblicità, è ovvio che anche l’accoglienza non può funzionare».