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 2017  agosto 27 Domenica calendario

Intervista a Natasha Fraser-Cavasson: «Ecco com’era la Tavola Rotonda di Artù Warhol»

Natasha Fraser-Cavassoni, scrittrice e giornalista, ha diretto l’edizione europea dell’Harper’s Bazaar dal 1999 al 2004. Ha appena scritto After Andy, Adventures in Warhol Land (Blue Rider Press). «Sono ricordi scritti usando Andy Warhol come filo conduttore: ero stata assunta per il suo programma su MTV solo 4 giorni prima della sua morte e sono stata una delle ultime persone a vederlo prima che venisse ricoverato, il venerdì, sotto falso nome, come Bob Roberts. E la domenica morì. Il libro parte con la commemorazione del 1o aprile 1987 alla cattedrale di St Patrick a New York per presentare i protagonisti. Andy era Mr New York e la sua commemorazione fu la mia personale iniziazione alla città».
Nel libro racconta della sua infanzia. Ha avuto una famiglia straordinaria?
«Fortunata. Mia madre è Antonia Fraser, la famosa scrittrice e mio padre, Hugh Fraser, era un politico conservatore. Lo seguivo in campagna elettorale. Era divertente».
È stata influenzata dalla forte etica del lavoro dei suoi genitori?
«Sì, non sono andata all’università ma mi sono sempre guadagnata da vivere e mi piace. E questo mi piaceva di Warhol, aveva un forte senso dell’etica e un grande senso di responsabilità riguardo al denaro. È bello essere un artista ma devi anche pagare i conti. Tutto il libro ruota attorno a persone con una salda etica del lavoro, si tratti di Harold Pinter o Mick Jagger o Karl Lagerfeld o Christian Louboutin».
Nel libro dedica ampio spazio a Fred Hughes, poco noto al grande pubblico.
«Era l’eminenza grigia di Andy. Bisogna ricordare che, dopo il tentativo di assassinarlo nel 1968, il mondo ufficiale dell’arte gli voltò le spalle, sostenendo che il suo talento si era inaridito. Fred con il suo gusto, la sua intelligenza e i suoi contatti fece di Warhol un personaggio internazionale. Fu sua l’idea di associarsi con il potente mercante d’arte svizzero Bruno Bischofberger che diede il via ai ritratti noti come Les Must de Warhol. In Europa del resto Warhol era più apprezzato. Hughes era un personaggio tragico e commovente che aveva tutto quello che voleva ma a cui alla fine le cose andarono malissimo e che è morto giovane. Un personaggio di Scott Fitzgerald e nemmeno il protagonista».
Quando morì, Warhol era in declino?
«Il personaggio Warhol aveva oscurato il suo talento. Per citare il gallerista Thaddaeus Ropac, “solo dopo la fine della rappresentazione riuscimmo a vedere la sua opera”. Lui era un grande artista ma allo stesso tempo amava comparire in società. Usava la fama, la sfruttava. Era lucidissimo. Capiva che esistevano anche gli altri artisti come Jasper Johns e Jean-Michel Basquiat. Non era presuntuoso, ecco perché è destinato a durare. Il lavoro di un artista onesto è sempre destinato a durare. Il problema è che era troppo avanti per i suoi tempi, un genio e anche una sorta di profeta».
Era molto religioso, vero?
«Aveva una grande fede che diventò ancora più grande dopo il tentato omicidio. Andava a messa ogni giorno. E si circondava di cattolici, per quanto non praticanti. Presiedeva una sorta di Tavola rotonda, era molto arturiano».
Lei poi si è trasferita a Parigi.
«Sì, mi sono innamorata di Parigi è così civile. Dei parigini adoro il profondo rispetto per l’intelligenza, il loro amore per le cose di qualità e le menti creative. Continuano a incuriosirmi. Inoltre mi hanno davvero fatto sentire la benvenuta. Resto profondamente inglese ma amo Parigi! Spero di aver preso il meglio da entrambi i mondi».
E l’America?
«A New York, capii improvvisamente perché tanto mia madre come il mio patrigno Harold Pinter fossero diventati famosi in Usa. Per un europeo è come veder arrivare un cavaliere scintillante pronto a salvarti. Gli americani adorano il successo. Invece gli europei diffidano di chi ce l’ha fatta».
A Parigi ha lavorato per Karl Lagerfeld, un altro grande uomo?
«Lagerfeld è fantastico, lui e Chanel rappresentano un caso a sè nel campo della moda. Tutto è così personale e sembra fatto senza sforzo. Come Andy, Karl ha un talento brillante, ma sa restare con i piedi per terra e non guarda al passato ma al futuro. Fecero anche un film insieme L’Amour, nel 1973».
Nel libro lei ricorda anche le sue storie d’amore, come con Mick Jagger.
«Fu una relazione spensierata e piacevole che iniziò nel 1980 e andò avanti per cinque anni. Lui stava con Jerry Hall che aveva enorme successo come modella ed era spesso in giro per il mondo. E lui era a Londra, da solo: irresistibile e incredibilmente intelligente e divertente. Detto questo, sono sempre stata consapevole dei limiti della relazione. Lui apparteneva a Jerry, era il suo eroe, non il mio».
Il mondo dei ricchi e famosi, a Londra, New York e Parigi, è perso per sempre?
«Esiste ancora, ma è diventato molto privato ed esclusivo. Oggi contano solo i soldi, durante la mia adolescenza bastavano fascino, umorismo e intelligenza. E i ricchi eleganti tendevano a nascondere la loro opulenza. C’era una sorta di innocenza».
Internet ha ucciso il talento?
«No, ma una volta le persone famose erano circonfuse da un’aura di romanticismo. Ora con Internet veniamo a conoscenza di tutte le magagne. L’idea è che le star siano esattamente come noi. Ma non è così. E poi perché dovremmo essere tutti uguali?».
Traduzione di Carla Reschia