La Stampa, 27 agosto 2017
La leadership smarrita nella Brexit. Downing Street sotto scacco della Ue
«Ma Downing Street dov’è?» La domanda del turista australiano sembrava assurda visto che era di fronte al cancello della strada più famosa del Regno Unito. Ma individuare la residenza dei primi ministri britannici non è facile.
Downing Street è un traversa, stretta, buia e un po’ scialba. A occhio nudo, sembra una della tante strade londinesi con le casette a schiera. Ma è da secoli il fulcro della politica interna ed estera del Regno Unito. Da Winston Churchill a Margaret Thatcher, da Tony Blair a Theresa May, questo vicolo del potere è legato indissolubilmente alla storia del nostro continente.
Il capitolo più recente, però, non ha un lieto fine. La Gran Bretagna è stata sconvolta da due choc – il voto per la Brexit dell’anno scorso e le elezioni sciagurate di quest’anno – entrambi «causati» dagli inquilini del numero 10 di Downing Street.
Il risultato è un vuoto di leadership inaspettato. Soprattutto per Londra, una città che ama proclamarsi «culla della democrazia occidentale» (con buona pace degli antichi ateniesi) e che adora il suo triumvirato di premier, parlamento e monarchia costituzionale.
Non sono solo i turisti australiani a chiedersi dove sia Downing Street. Dopo un risultato elettorale catastrofico, la May si ritrova a capo di un governo di minoranza, sorretto a mala pena da un gruppo politico nord-irlandese di dubbia qualità.
Il partito conservatore è ai minimi termini, sempre più spaccato sull’Europa. E imbufalito dalla decisione suicida della May di indire un’elezione che non è riuscita a vincere nonostante la pochezza dell’opposizione laburista e liberale.
Come se non bastasse, questo governo sfilacciato ha il compito di guidare il Regno Unito verso la porta con la scritta «Brexit», passando sui carboni ardenti dei negoziati con partner europei agguerritissimi.
«Siamo in una situazione “italiana”», ha detto, incredulo, uno dei vecchi consiglieri di Blair. E non era un complimento: «È un caos politico totale e incomprensibile», ha aggiunto.
C’è del marcio a Londra. L’uno-due di referendum ed elezioni ha distrutto la convinzione che, a differenza di quei confusionari europei, il Regno Unito è sempre e comunque governabile.
Londra non avrà proprio «cullato» la democrazia occidentale, ma è il posto dove il nostro sistema di governo è cresciuto e maturato. Per anni, la Gran Bretagna è stata un modello di stabilità politica: c’era un sistema elettorale che garantiva un vincitore, i risultati erano sempre chiari e chiunque emergesse dalle elezioni aveva la maggioranza ed il mandato per governare in pace.
La definizione più famosa, e più giusta, del sistema inglese è il vecchio aforisma di Lord Hailsham: «elective dictatorship», una dittatura elettorale. Su questo punto, i britannici, normalmente così riservati, non si facevano mai pregare. Non c’era cena con amici o intervista con banchieri, o incontro con capitani d’industria in cui i miei interlocutori non chiedessero con aria di superiorità: «Ma che succede in Italia?». «Ma come fa a funzionare con un sistema che fa acqua da tutte le parti?».
Ora è la premier conservatrice Theresa May ad avere l’acqua alla gola. E con lei un Paese che non è abituato ad arrangiarsi in politica.
Cosa succederà? Il futuro immediato è chiaro: la May vivacchierà fino alla fine dei negoziati di Brexit perché le «grandi bestie», il nomignolo che la Thatcher diede ai pezzi grossi del partito conservatore, non vogliono esporsi e non si azzardano a fare un’altra elezione, nel caso vincessero i laburisti sinistrorsi di Jeremy Corbyn.
E dopo? A un certo punto, uno dei tanti aspiranti al trono della May, sia nel suo partito che tra i laburisti, tenterà di prenderne il posto, o attraverso nuove elezioni o grazie a una di quelle notti dei lunghi coltelli tanto amate dai conservatori (basta chiedere alla Thatcher, silurata dai propri colleghi).
In un altro Paese europeo, la debolezza del primo ministro e l’incertezza politica porterebbero ad elezioni anticipate. Non nel Regno Unito. Al momento, nessuno vuole un nuovo voto, nemmeno i laburisti perché sanno che i connazionali ne hanno le tasche piene di andare ai seggi.
In Gran Bretagna, le urne sono sempre state un modo efficiente, veloce e sicuro di scegliere chi governa. Ma al momento, la popolazione britannica teme che il sistema sia difettoso e non vuole metterlo alla prova per paura che sia completamente rotto.
Ed è qui che la bistrattata esperienza europea può aiutare Westminster. La lezione impartita a politici ed elettori nei caotici sistemi italiani, francesi e spagnoli (ma anche tedeschi e scandinavi, diciamolo) è che niente è immutabile. Che il discorso politico, le condizioni economiche e i capricci dell’elettorato sono sempre in movimento.
Il flusso della politica britannica è imprevedibile, ma molto dipenderà dal tipo di Brexit che la May riuscirà a negoziare con Bruxelles.
Se la prima ministra appare indebolita e prona a concessioni nei confronti dell’Unione europea, non riuscirà a rimanere in sella dopo l’accordo. Le grandi bestie del partito conservatore la sbraneranno nel nome del rispetto della «volontà popolare» del referendum.
Ma se la May riesce a pilotare i negoziati senza aizzare l’ala euroscettica, potrebbe avere il lusso di indire elezioni quando le è più opportuno, o di scegliere un candidato a premier di suo gradimento.
Temporeggiare è comunque un’ottima tattica per i conservatori. Più passa il tempo e più i laburisti faranno fatica a cavalcare l’ onda di protesta. Soprattutto se Corbyn e le sue politiche rimangono indigeribili per gran parte dell’elettorato centrista che aveva votato per Blair.
«Ordine e governabilità, era il regalo della Gran Bretagna al mondo. Non più», ha detto un’ex-ministra dopo le elezioni. Londra lamenta la fine di un’epoca.
3- fine