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 2017  agosto 26 Sabato calendario

Svaniti nelle viscere di Roma: «Noi profughi trattati come topi»

Si sono sparpagliati per la città come foglie al vento, le centinaia di migranti, tra cui tantissimi rifugiati di origine eritrea e somala, che vivevano nel grande immobile di piazza Indipendenza. Via, via nel giro di poche ore. Dove? Alcuni, poche decine di madri con i bambini, ma senza i mariti, hanno accettato la sistemazione in casa-famiglia che era stata offerta dal Comune: in tutto 90 posti e solo per i vulnerabili. Poi ci sarebbero altri 60 posti letto in alcune villette nel Reatino che sono state messe a disposizione dalla società locataria del palazzo, ma solo per sei mesi. Ma c’è già chi, come Marco Cortella (Pd), sindaco di Forano, si oppone: «È un’idea insensata, la mia comunità non accetterebbe altri migranti». Cento-centocinquanta persone alla fine essere sistemate. E le altre? Dopo una cena gratis offerta dai ristoranti africani della zona, sono svaniti nelle viscere della città. Accolti da amici e parenti, ma soprattutto dal Centro Baobab che è risorto dietro la stazione Tiburtina, gestito da gente dei centri sociali, e poi a Collatina e Romanina in altre occupazioni. Secondo la prefettura di Roma, sono oltre 90 i palazzi in mano agli abusivi.
«Ci hanno detto che eravamo topi», raccontava ieri una donna tra quelle sgomberate. Un’altra piangeva al telefono: «L’Italia ci ha garantito l’asilo politico. Ma quale garanzie! Sono quattro anni che stavamo nel palazzo e l’altro giorno ci hanno trattato come immondizia da pulire, ci hanno sparato l’acqua addosso». «Questo è razzismo delle istituzioni». E infine, in una sorta di conferenza stampa arrangiata: «Noi non abbiamo altra scelta. Non vogliamo vivere così, ma da esseri umani. In altri Paesi insegnano la lingua, aiutano a trovare lavoro. In Italia, no. Se ci togliessero le impronte dai documenti almeno potremmo andare in un altro Paese».
Eccolo, il dramma dei rifugiati in poche stentate parole. Ed è la storia di tutti. Lo racconta padre Moses Zerai, un sacerdote eritreo che vive a Roma dal 1992 ed è considerato l’angelo dei rifugiati: «In Italia si fa la prima assistenza, quando il migrante sbarca. Sapete, il sistema degli hotspot e poi dei centri affidati ai privati e alle cooperative. Ma tutto finisce non appena il richiedente riceve il documento della prefettura che gli riconosce l’asilo. A quel punto, arrivederci e grazie. Tolti pochi posti nello Sprar, e solo per un anno, non c’è nessun percorso di integrazione. A differenza dei Paesi del Nord Europa non c’è un circuito di seconda assistenza».
L’unica speranza del richiedente asilo dunque si chiama Sprar, il Servizio di protezione che è gestito in condominio dal ministero dell’Interno e dagli enti locali. Ma i numeri sono impietosi: 1100 Comuni coinvolti, 31.313 posti finanziati. A fronte di 131mila rifugiati accolti dall’Italia (dati Unhcr 2016). Centomila persone ne sono fuori e sono alla sbando. Intanto si marcia al ritmo di tremila nuovi rifugiati al mese.
Ricapitolando: nel 2016 sono sbarcate 180 mila persone, quest’anno altre 98 mila. Tutti questi migranti in genere chiedono asilo e vengono sistemati nei centri di prima accoglienza, gestiti dalle prefetture, dove attualmente sono più di 200 mila. Qui attendono di conoscere la loro sorte: metà delle domande viene respinta (e teoricamente sono clandestini passibili di espulsione), l’altra metà ha diritto alla protezione. A quel punto c’è il sistema Sprar. Ma solo per pochi e per un anno. Poi c’è la strada, dove raggiungono tutti gli altri. «In Italia – lamenta don Zerai – non c’è alcun percorso per l’integrazione per chi è un rifugiato riconosciuto. I soldi dello Sprar sono buttati dato che in un anno non imparano nemmeno la lingua, il primo passo per trovare lavoro. Nessuno che si preoccupi se il migrante abbia trovato un lavoro, se possa pagare un affitto o le bollette. Con il Regolamento di Dublino non possono nemmeno provare ad andare in un altro Paese europeo. Così al massimo trovano qualche lavoro ultra-precario con le cooperative o fanno lavoro nero. Ma in queste condizioni nessuno riesce a trovare un appartamento. Sono tutti destinati a finire nelle occupazioni abusive».
Conferma Lorenzo Chiavastri, che segue i problemi dell’immigrazione per la Caritas di Roma: «Le istituzioni si disinteressano totalmente dell’integrazione. Finita la prima assistenza, ritengono esaurito il loro compito. Ma se queste persone restano ai margini, perdono la speranza, s’arrabbiano e basta. E si è visto a piazza Indipendenza qual è il risultato finale».