il venerdì, 25 agosto 2017
LA RADIO NON E FATTA PER DIRSI VAFFA. Intervista a Massimo Cirri
Porosa, leggera e poligamica, la radio è forse l’unico tra tutti i media che ci parla di una permanenza dentro al cambiamento. Un permanere di identità linguistica e di prossimità sociale, innanzitutto, perché la radio è ancora capace di aggregare attraverso una voce tanto diversa da riuscire a essere (ancora) viatico di appartenenze, antidoto alla solitudine e perfino vaccino contro le fake news.
Massimo Cirri, 59 anni, da oltre un quarto di secolo psicologo nei centri di salute mentale tra Lombardia e Friuli, da due decenni è anche la voce di Caterpillar, storica trasmissione di Rai Radio2. Con Sette tesi sulla magia della radio (Bompiani) ci invita a comprendere la straordinaria e a prima vista inspiegabile resistenza di un mezzo che ha saputo oltrepassare il confine del Novecento senza smarrire il suo senso più profondo: far entrare il mondo di fuori in quello di dentro, il pubblico e l’intimo, il singolo e la massa.
Nell’era dell’io più o meno narcisistico la radio continua a dire «noi». Perché?
«Perché nasce dalla necessità di non far sentire solo nessuno, come ai primordi, con le trasmissioni dalle navi transoceaniche. Il sedimento di una comunità possibile è connaturato alla radio da sempre».
Cambia la struttura della famiglia e della società, arriva la tv e poi il digitale, e la radio è sempre lì.
«La ragione profonda è che è vicina alla vita quotidiana delle persone, la si ascolta fermi al semaforo, cucinando o facendo altro. Ecco, è in questa “poligamia’’della fruizione la peculiarità del suo permanere».
Lei scrive che un appello per radio funziona sempre, o quasi.
«La ragione è nel suo essere legata all’istantaneità, all’urgenza, al “subito”. E vale per il grande e il piccolo, per chi ha perso tutto nel terremoto e per chi ha smarrito il suo cane nel quartiere».
Tra le due guerre Brecht e Benjamin avevano intuito la potenzialità «democratica» della radio, invocavano la partecipazione degli ascoltatori. Ma furono anche gli anni di Goebbels e dei proclami mussoliniani via Eiar.
«È il lato oscuro, totalitario, che fa perdere quelle potenzialità e declina la radio come messaggio di “uno verso i molti“; anch’essa, come i popoli, diventa asservita ai bisogni dei regimi».
Nella seconda metà del Novecento lo schema si rovescia. La radio diventa la testa d’ariete contro i monopoli dell’informazione di Stato.
«E questo si deve anche alla sua modalità produttiva, più leggera degli altri media, perfino artigianale. Non poteva che partire da lì la sfida ai canali unici».
Il sogno di Brecht e Benjamin si realizza qualche decennio dopo. Passano ancora trentanni e arrivano i social, anch’essi presunti partecipati e “orizzontali”.
«Già, ma sono due partecipazioni completamente diverse. C’è il tempo reale e c’è l’interattività, ma ciò che fa la differenza è il valore della voce umana. Tra digitare un vaffanculo e pronunciarlo c’è un confine e la radio, proprio per come è fatta, lo presidia».
L’interattività radiofonica e quella del web separate dalla responsabilità, dunque?
«Sì, perché quando si parla ci si ascolta di più, c’è un meccanismo di autoregolamentazione in più. Se i social sono spesso una ribellione alla solitudine, la radio alla solitudine è invece un antidoto». Parlava della credibilità della voce. Quindi la radio è allergica alla post verità?
«Credo di sì, è più difficile forzare il reale investendo la voce in prima persona, per via diretta con l’ascoltatore».
Però la prima fake news nasce quando Orson Welles annuncia via radio lo sbarco dei marziani.
«Ah, quella è la meraviglia e il genio di un grande artista. Un elemento di contraddizione che sul mezzo dice la stessa cosa: cos’era se non un gioco teatrale sull’appello e l’urgenza?».
I partiti si agitano molto sul web: sottovalutano la radio per la loro propaganda?
«Secondo me sì. Ma negli ultimi anni questa reciproca estraneità si è arricchita di nuove ragioni. Se è vero che la politica è sempre più storytelling, allora in radio, per i motivi che abbiamo detto fin qui, questo attacca poco...».
Non narrazioni di potere ma leggerezza alla Italo Calvino, allora.
«Esatto. E si ritorna al tema della prossimità al quotidiano delle persone. Leggerezza è poligamia, perché fare due cose assieme arricchisce. E poi c’è la porosità, quel varcare continuo dei confini».
Quali, se oggi la comunicazione è interamente globalizzata?
«La porosità è attraversamento di confine geografico, ma anche di mittente e destinatario e delle reciproche intimità». Vent’anni davanti al microfono. Cosa prova quando si accende la scritta “on air“?
«Lp sensazione fortissima del momento presente. Quella lueina dice che sei in onda, sì, ma soprattutto dice ogni volta: “adesso”. Lo dice alla tua vita e, dall’altra parte, alla vita di chi ascolta».